Commento al Vangelo del 26 settembre 2018 – Monastero di Bose

Dopo averli chiamati (cf. Lc 5,1-11) e averli istituiti come comunità (cf. Lc 6,12-16), Gesù rende i suoi discepoli, in particolare i Dodici a lui più vicini, “apostoli”, cioè inviati.

Proprio perché hanno fiducia in lui e hanno con lui una comunione di vita (“stanno con lui”, direbbe Marco; cf. 3,14), sono chiamati a condividere anche la sua missione, il suo andare e venire nella compagnia di uomini e donne. Per fare cosa? Innanzitutto è chiesto loro di accogliere il suo agire: Gesù li chiama nuovamente, li chiama insieme, e dà loro potenza e autorevolezza, quelle stesse con cui egli scacciava gli spiriti impuri, cioè faceva arretrare il dominio di Satana (cf. Lc 4,36). Essi stessi ricevono potenza e autorevolezza contro il male, dunque per “curare malattie”.

Qui ci sia concessa una parentesi lessicale, di grande importanza. I vangeli sottolineano il fatto che Gesù cura i malati (il verbo “curare” ricorre 36 volte, mentre il verbo “guarire” 19), e curare significa innanzitutto servire e onorare una persona, avere sollecitudine verso di lei. Purtroppo spesso la versione ufficiale italiana ha appiattito tutto sul verbo “guarire”: nel nostro testo, per esempio, si parla 2 volte di “curare” (vv. 1 e 6) e solo una di “guarire” (v. 2), ma dalla traduzione non si capisce…

Gesù vedeva nel malato una persona, ne faceva emergere l’unicità e vi si relazionava con la totalità del suo essere, cogliendone la ricerca di senso, considerandolo una creatura disposta all’apertura di fede-fiducia, desiderosa non solo di guarigione, ma di ciò che può dare pienezza alla vita: insomma, mirava a stabilire una vera relazione con chi era affetto da una certa patologia! Così sono chiamati a fare anche i suoi discepoli, anche noi, da lui inviati nel mondo. Perché se alcune malattie sono tuttora inguaribili, nessuna persona è mai incurabile: basta che ce ne prendiamo cura, manifestandogli la cura che il Signore si è preso dell’umanità… Curare non è da meno di guarire!

Da questo prendersi cura, nei fatti, discende anche l’annuncio del regno di Dio (v. 2). Ecco il Vangelo, la buona notizia (v. 6): in Gesù Cristo Dio regna in noi e tra di noi, qui e ora! Come diceva san Francesco, inviando i suoi fratelli tra i saraceni: “Annunciate la buona notizia, se necessario anche con le parole”. Ovvero, innanzitutto con la vita, con uno stile ben preciso, qui indicato nei vv. 3-5: sobrietà, povertà, disponibilità ad accogliere e a essere accolti, non arroganza, capacità anche di farsi da parte, accettando che c’è chi non ci vuole ascoltare. E tutto questo mediante la capacità di vivere insieme, comunitariamente. L’invio avviene infatti sempre “a due a due” (Mc 6,7), per vivere l’amore fraterno in modo visibile e, soprattutto, per manifestare la dimensione comunitaria del Regno: la proclamazione del Regno non può essere un’azione individualistica, nata dall’iniziativa privata, ma è sempre un atto comunitario, ecclesiale, perché “dove due o tre sono riuniti o inviati nel nome di Gesù, là egli è presente” (cf. Mt 18,20).

In breve, come si legge in un bel testo cristiano delle origini, si tratta di avere, anche nella missione “i modi del Signore” (Didaché 11,8), il suo stile. Come lui, così noi. Dove lui, lì noi.

fratel Ludwig della comunità monastica di Bose

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Lc 9, 1-6
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù convocò i Dodici e diede loro forza e potere su tutti i demòni e di guarire le malattie. E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi.
Disse loro: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche. In qualunque casa entriate, rimanete là, e di là poi ripartite. Quanto a coloro che non vi accolgono, uscite dalla loro città e scuotete la polvere dai vostri piedi come testimonianza contro di loro».
Allora essi uscirono e giravano di villaggio in villaggio, ovunque annunciando la buona notizia e operando guarigioni.

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

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