Alberto Maggi – L’ingordigia dei ricchi e i peccati commessi in nome del denaro

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Chi, per manovre economiche, per fare negoziati non del tutto chiari, chiude fabbriche, chiude imprese e toglie il lavoro agli uomini, fa un peccato gravissimo“. Parte da queste parole di Papa Francesco (Udienza Generale del 15 marzo 2017) la riflessione di frate Alberto Maggi su ilLibraio.it

La sapienza biblica ha individuato nell’ingordigia, la bramosia di possedere, l’origine e la causa di ogni ingiustizia e di ogni male. Alla base di ogni inganno, di ogni ruberia, di ogni sopruso e violenza, di ogni tragedia e di ogni lutto, c’è sempre e soltanto il dèmone della cupidigia. Vera e propria malattia dell’animo, l’avidità trasforma l’uomo in un essere bulimico, insaziabile, insoddisfatto, che più ha e più vuol avere, rendendolo un pericolo per sé e per gli altri, perché la ricerca senza freni di possedere sempre più, porta all’assassinio e i popoli alla guerra, come denuncia Giacomo nella sua lettera: “Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra!” (Gc 4,2).

Già nei libri dell’Antico Testamento si manifesta l’avversione del Dio d’Israele verso la cupidigia che deturpa l’essere umano e la stessa creazione. L’uomo, che il Creatore ha voluto come sua immagine (Gen 1,27), abbandonandosi a ogni bramosia, ha sfigurato se stesso. Chiamato a essere il custode del giardino di Eden (Gen 2,16), lo ha devastato a causa della sua avidità, trasformando quel che doveva essere un giardino in un cimitero (“Quel luogo fu chiamato Kibrot Taavà [sepolcri dell’ingordigia], perché là seppellirono il popolo che si era abbandonato all’ingordigia”, Nm 11,34).

Secondo il Libro del Siracide, “Per amore del denaro molti peccano” (Sir 27,1). Il peccato non è un’offesa a Dio, ma l’inganno al prossimo. Chi accumula beni pensa di trovare nei suoi averi la tranquillità, la sicurezza, e di dormire sonni tranquilli. In realtà più si ha e più cresce l’ansia, più si possiede e meno si è sicuri, come tratteggia, in modo efficace, l’autore del Siracide: “L’insonnia del ricco consuma il corpo, i suoi affanni gli tolgono il sonno. Le preoccupazioni dell’insonnia non lasciano dormire, come una grave malattia bandiscono il sonno” (Sir 31,1-2)

Quest’ansia di possedere sempre più, che porta alla distruzione dell’individuo, fu personificata nel mondo ebraico in una sorta di divinità, mamona, termine la cui radice significa quel che è certo e stabile, e indica la ricchezza, il patrimonio. Mamona è l’idolo che inganna e poi distrugge quanti lo adorano (“Niente è più empio dell’uomo che ama il denaro, perché egli si vende anche l’anima… Molti sono andati in rovina a causa dell’oro, e la loro rovina era davanti a loro. È una trappola per quanti ne sono infatuati, e ogni insensato vi resta preso”, Sir 10,8; 31, 6-7).

Mentre i rabbini distinguevano tra la mamona menzognera e quella verace, per Gesù la ricchezza è sempre disonesta, acquisita in maniera ingiusta. È significativo a questo riguardo che Gesù, rispondendo al ricco, che gli chiedeva quali comandamenti osservare per ottenere la vita eterna, omette i primi tre, gli obblighi verso Dio, che erano i più importanti, ed esclusivi di Israele, e gli elenca cinque comandamenti che sono validi per ogni uomo, ebreo o pagano, credente o no, e che riguardano basilari atteggiamenti di giustizia nei confronti del prossimo (“Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora tuo padre e tua madre”, Mc 10,25). Ma tra i cinque comandamenti elencati, Gesù, con abile mossa, inserisce anche “Non frodare”, richiamandosi a un precetto contenuto nel Libro del Deuteronomio: “Non defrauderai il salariato povero e bisognoso… Gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e a quello aspira” (Dt 24,14-15; Lv 19,13). Gesù è esplicito: il suo interlocutore è ricco e, se è ricco, certamente alla base delle sue ricchezze c’è stato l’inganno, la frode a scapito dei poveri, da sempre “pascolo dei ricchi” (Sir 13,19). In tutta la Bibbia emerge il severo rimprovero del Signore verso quanti si arricchiscono sfruttando i lavoratori: “Guai a chi costruisce la sua casa senza giustizia e i suoi piani superiori senza equità, fa lavorare il prossimo per niente, senza dargli il salario” (Ger 22,13). “Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente” (Gc 5,4).

Il Nuovo Testamento mette in guardia da “quella cupidigia che è idolatria” (Col 3,5; Ef 5,5), perché i beni accumulati sono sporchi, non trasmettono vita, ma intossicano, chiudono il cuore al prossimo e quindi a Dio stesso, e Gesù avverte: “Badate di tenervi lontano da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni” (Lc 12,15). Questo di Gesù non è un invito, ma un comando imperativo. Chi accumula beni per sé mostra di non avere nulla a che fare con il Signore; non Dio è la sua divinità ma mamona: “Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3,17). E Gesù ridicolizza il ricco, che pianificava il suo futuro basando la sua tranquillità sull’accumulo dei beni, e pensava “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni, riposati, mangia, bevi e divertiti”. Il Signore non solo non loda il ricco per la sua accortezza, ma lo biasima: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio” (Lc 12,19-21; Sal 39,7). L’avido ricco credeva di essere accorto, astuto, era soltanto uno stupido, perché è “come una pernice che cova uova altrui, chi accumula ricchezze in modo disonesto. A metà dei suoi giorni dovrò lasciarle e alla fine apparirà uno stolto” (Ger 17,11).

Per Gesù la serenità non viene da quanto si possiede, ma da quanto si è capaci di donare, quando si fa, scompare ogni forma di ansia e di preoccupazione, perché si sperimenta che, se si vive per il bene e il benessere altrui, si permette al Padre di occuparsi dei suoi figli in misura molto più grande del bisogno (Lc 12,22-31).

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