Papa Francesco – Le dieci parole, Catechesi sui Comandamenti

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Quando si parla di comandamenti tutti pensano ad un passo indietro nel mondo del legalismo e delle imposizioni. Non c’è niente di tutto questo nelle catechesi che papa Francesco ha dedicato ai Dieci Comandamenti
– le Dieci Parole, come leggiamo in Esodo 20,1 – e ora raccolte in questo volume. La prospettiva appare letteralmente rovesciata: i comandamenti non sono visti più come divieti, ma come “parole” di libertà.

Riferendo infatti ogni singola parte del Decalogo al Signore Gesù, mentre il Papa ci aiuta a capire meglio i singoli comandamenti, in realtà conosciamo meglio Cristo, percepiamo sempre meglio qualcosa che nel nostro intimo corrisponde a quel Volto. La legge, scritta su due tavole di pietra, la ritroviamo scritta dentro di noi, come risvegliata. E non per suscitare un dovere ma un desiderio, per permetterci di essere, fino in fondo, noi stessi.

Come ben evidenzia don Fabio Rosini nella prefazione al volume, queste catechesi non fanno altro che accendere «la nostra voglia di vivere e di amare, di essere liberi, autentici, adulti, amorevoli, fedeli, generosi, sinceri e belli».

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Leggi la prefazione di don Fabio Rosini

Quando si citano i Dieci Comandamenti tutti pensano ad un rigurgito di legalismo e ad un passo indietro nel mondo delle imposizioni e dei divieti.

Se poi si prendono i singoli temi, come «non uccidere» o «non commettere adulterio», ad esempio, allora scattano tutti gli all’erta dello scontro fra visioni etiche e tutte le loro fazioni implicate.

Alla notizia che il Papa avrebbe affrontato questo tema potevamo domandarci: potrà mai Francesco fare un salto indietro nel legalismo? Ma anche: evangelico come è, quanto calcherà la mano sul richiamo alla radicalità?

Ci dovevamo aspettare una serie di sferzate morali austere e salutari?

Niente di tutto questo.

Papa Francesco entra con tutt’altra prospettiva nella lettura dei Dieci Comandamenti, e il presente volume, che consente di leggere di seguito le 17 udienze dedicate al tema, permette di apprezzare l’aspetto forse più rilevante di queste catechesi papali: non sono una collezione episodica di meditazioni sui singoli comandamenti, ma un percorso unitario che presenta le varie parti del Decalogo come un unico sentiero nella fede proposto alla Chiesa e a tutti gli uomini.

Nelle prime udienze in modo nitido, e nelle ultime in modo ancor più esplicito, i singoli comandi fanno parte di un processo organico, prezioso, sorprendente, eppure assai ben fondato nella più pura tradizione biblica, soprattutto paolina.

La spiegazione spazia dall’analisi oggettiva delle parole di cui è composto il Decalogo allo sguardo disincantato e oggettivo sull’uomo e sul mondo. Il senso delle cose concrete si impasta con una lettura fedele del testo per cui ci si sente appoggiati su una base solida allo scopo di fare un tuffo nella realtà, non in un’analisi astratta ma vitale, reale, utile, a portata di mano. Non ci si poteva aspettare altro da questo Papa, d’altronde.

Ma la cosa più notevole è che il percorso è svolto per arrivare ad una mèta inaspettata, in un certo senso tenuta nascosta per tutto il viaggio e svelata nelle ultime due udienze, e quasi rincresce palesarla in questa introduzione, perché l’intento è raggiunto per bene solo lasciandosi prendere per mano da questa intenzione nascosta per arrivare al risultato che queste udienze cercano di enucleare nell’ascoltatore. Eppure quel che il Papa cerca di suscitare con queste catechesi non è assolutamente niente di nuovo; anzi, è così antico da essere stato trascurato e poterci così sorprendere, visto che non ci si pensava più. Tecnicamente queste udienze, infatti, innescano il trauma della legge che fonda il passaggio alla grazia.

Ma spieghiamoci per bene.

Ci potevamo aspettare una serie di riflessioni sui doveri morali, ma quando il testo del Decalogo inizia ad essere commentato, ossia dalla seconda udienza in poi, questo aspetto etico non è centrale, mentre ne appare naturalmente un altro: ogni specifica parte del Decalogo viene sempre riferita al Signore Gesù. E mentre sembra che si stia parlando di noi e dei nostri doveri, il discorso scivola verso di Lui. E siamo dolcemente guidati a guardare nella sua direzione.

L’attenzione è spostata dal richiamo morale al volgere «lo sguardo verso colui che hanno trafitto» (Gv 19,37), ma l’effetto non è il disimpegno. Tutt’altro.

Pian piano e sempre più intensamente capiamo che il Decalogo ci conduce, come dice il Santo Padre nell’ultima catechesi, davanti ad una «radiografia» di Gesù, perché Lui è quella vita di cui questi comandi parlano, Lui è colui che vive l’esistenza tratteggiata da questo antico testo. Il Decalogo è quindi, dice sempre il Papa, una sorta di «negativo fotografico che lascia apparire il suo volto – come nella sacra Sindone». E così mentre volta per volta capiamo meglio il contenuto del Decalogo, in realtà conosciamo meglio Cristo, lo guardiamo sotto una prospettiva più luminosa.

Eppure noi non restiamo fuori dal discorso, ma percepiamo sempre meglio qualcosa che nel nostro intimo corrisponde a quel Volto. Come se tutto quel che vien detto ci risuonasse nostro, non estraneo ma consono, interiormente riconoscibile come vero.

È il nostro cuore.

È la nostra voglia di vivere e di amare, di essere liberi, autentici, adulti, amorevoli, fedeli, generosi, sinceri e belli. La legge, scritta su due tavole di pietra, la ritroviamo scritta dentro di noi, come risvegliata. E non per suscitare un dovere ma un desiderio. Non per costringerci dentro uno schema ma per permetterci di essere, fino in fondo, noi stessi.

Quel che regolarmente appare nell’analisi di ogni comandamento, infatti, non è la negazione della formulazione ma l’affermazione che gli è sottesa, e questo è importantissimo: papa Francesco non legge il Decalogo per vedere quale sia il “no” da dire, ma il “” da annunciare. Non è tanto importante scoprire cosa ci sia di proibito, ma cosa sia implicato di positivo e liberante.

Ecco come il Santo Padre si esprime in un uno dei passaggi finali dell’ultima catechesi: «In Cristo, e solo in Lui, il Decalogo smette di essere condanna (cfr. Rm 8,1) e diventa l’autentica verità della vita umana, cioè desiderio di amore – qui nasce un desiderio del bene, di fare il bene – desiderio di gioia, desiderio di pace, di magnanimità, di benevolenza, di bontà, di fedeltà, di mitezza, dominio di sé. Da quei “no” si passa a questo “sì”…».

Eppure questo processo, pur se assertivo, è comunque doloroso.

Perché niente quanto il bene sa mettere in crisi e mostrare quel che manca. Guardare una stanza pulita fa capire quanto la propria possa essere sporca. Contemplare una cosa ben fatta svela quanto c’è di mal fatto in quel che si sta combinando. E questo, per l’appunto, è amaro. Ma è un’amarezza necessaria. In queste udienze si usano dei toni che esortano verso la bellezza, la verità e l’amore, indicando la via della vita, e suscitando come motore interiore l’attrazione verso il cambiamento e non i sensi di colpa, il fascino per il bene e non il rimorso. Ma questo nasce da un dolore, come si diceva, che è positivo, smuove e non ottunde, mette voglia e non scoraggia. Ma pur sempre dolore è: quello del bene mancante. È il

cuore trafitto che prelude alla vita nuova.

È una chiave essenziale di questo pontificato: occuparsi di quel che c’è da sperare e amare, e, come direbbe papa Francesco, “misericordiare” quel che c’è da rinnegare e abbandonarlo, non rimarcarlo. Ricostruire, non accusare.

*  * *

Le catechesi partono dal giovane ricco del decimo capitolo del Vangelo di Marco, e parlano della voglia di qualcosa di grande, attaccando frontalmente la mediocrità, che è il vero nemico aggredito in tutte queste catechesi. E capiamo subito cosa sta cercando di fare papa Francesco: mettere il desiderio di trovare quel che manca, e sentirlo mancare. Così il Santo Padre loda l’inquietudine, il non accontentarsi di vivere di mezze misure, la fame di andare «oltre», l’appetito del «di più».

Allora si comincia il viaggio con la prima gioiosa scoperta: nella seconda catechesi viene svelato che il testo del ventesimo capitolo del libro dell’Esodo che contiene il Decalogo non parla di Comandamenti, ma di Parole. La differenza fra parola e comando è quella che c’è fra la relazione e l’estraneità. La distinzione viene illuminata profondamente e cambia tutta la prospettiva della fede nel Dio di Gesù Cristo: un Padre, non un tiranno. E questa distinzione è  il passaggio dal falso cristianesimo al cristianesimo autentico, e così, verso la conclusione dell’udienza, il Papa dichiara: «Il mondo non ha bisogno di legalismo, ma di cura».

Sulla stessa falsariga la terza catechesi illumina l’importanza della prima frase del testo del Decalogo che non è una mera citazione di quel che ha preceduto la consegna delle Dieci Parole, ma il fare memoria per aprirsi alla gratitudine, che è la chiave per accogliere quel che segue; con entusiasmo papa Francesco dice:

«… quante cose belle ha fatto Dio per ognuno di noi!

Quanto è generoso il nostro Padre celeste!» e propone un esercizio di memoria e di riconoscenza. È questa la base della fiducia: avere nel cuore «Colui che ci ha dato tanto, infinitamente più di quanto mai potremo dare a Lui».

In questa stessa udienza il Santo Padre ha parole durissime contro uno stile educativo incentrato su obblighi, impegni e coerenze che non mette al centro la generosità di Dio, che non parta da Lui e dalla sua tenerezza. Molti di noi hanno dei tristi ricordi in proposito, ed è consolante ascoltare un Papa che dica questo così chiaramente.

Ma arriva il tema poderoso dell’idolatria che prenderà il tempo di due udienze; nella prima sarà lucidamente focalizzata la tragedia della schiavitù agli idoli, mentre nella seconda si analizzerà con finezza il meccanismo e la radice dell’attaccamento alle cose e alle idee, che risiede nel rifiuto della propria fragilità. Così inizia un lavoro sottile di riconciliazione con la nostra condizione, e in lungo e largo il Papa, nelle udienze, affronterà la povertà umana con serenità, senza alcuna condanna. Man mano che si scopriranno le miserie del proprio cuore, l’invito sarà a riconoscerle e accoglierle e non scappare da esse. Alla fine, infatti, ci serviranno più di quanto ci si aspetti. Quindi arriviamo all’udienza sul rispetto del Nome di Dio, e papa Francesco ci fa scoprire che è la Parola sulla relazione con il Signore, il quale chiede un rapporto autentico, bello, vero, di essere conosciuto e invocato per nome, senza ipocrisie. Ma anche questo parte dall’atteggiamento di Dio stesso manifestato in Cristo, e il Papa, dopo aver esortato a farsi carico del Nome di Dio con radicalità, afferma: «Vale la pena di prendere su noi il nome di Dio perché Lui si è fatto carico del nostro nome fino in fondo, anche del male che c’è in noi; Lui si è fatto carico per perdonarci, per mettere nel nostro cuore il suo amore».

Così, per l’ennesima volta, il Santo Padre rovescia la prospettiva e trasforma, o meglio, riconduce quel che sembrava una imposizione ad una relazione da uomini grati, amati, liberati.

Seguono le due sorprendenti udienze sulla Terza Parola, le quali svelano il duplice segreto del vero riposo: esso è fatto di riconciliazione con il passato e di libertà da se stessi. Il mondo odierno sembra «un grande parco giochi dove tutti si divertono» e affermano il proprio diritto a frantumare ogni limite, ma viene tristemente riconosciuto per quel che è: un cosmo di fuggiaschi schiavi del proprio ego. Allora il peccato non è autoaffermazione ma autodistruzione: la vera realizzazione dell’uomo e la sua autentica libertà è l’amore.

Allora, nella Quarta Parola, si può affrontare il tema dell’amore verso le proprie radici, e il valore equilibrato da dare all’infanzia, ai genitori e a tutto quello da cui l’uomo proviene, affermando la liberante possibilità di sanare anche la memoria delle storie più tragiche in una accoglienza della paternità di Dio.

Se ci si lascia rigenerare da questa paternità, da figli di Dio si diviene fratelli, e possono arrivare le due catechesi sulla Quinta Parola, che proclamano la preziosità della vita e la cura di essa; in queste due udienze il Papa mette il fondamento di tutta la seconda tavola con la scoperta basilare e illuminante che per «non uccidere» il prossimo in realtà bisogna amarlo. Un millimetro sotto l’amore inizia la necrosi dei rapporti. Non senza passare per l’accoglienza della propria stessa vita e della riconciliazione con essa, di cui si è già parlato nei comandi sul riposo e sui genitori.

Nel corso di questa parte sulla cura della vita papa Francesco mette una delle molte digressioni che inserisce nel testo da cui parte, digressioni tipiche di una comunicazione da pastore che ama intrattenersi con le pecore e sottolineare quel che gli sta a cuore, e questa volta mette una digressione durissima contro l’aborto. Altrove morbidissimo, qui implacabile. Va notato: la difesa del debole non ammette sconti.

Una nota particolare richiedono le due catechesi su «non commettere adulterio»: l’argomento dell’affettività e della sessualità richiamerebbe, per la sua delicatezza, una certa tensione nel discorso… invece siamo di fronte a due udienze serene, tutt’altro che polemiche ma costruttive, propositive. Ancora una volta vediamo come l’intento sia quello di affermare, non di negare.

Senza sconti è anche l’udienza su «non rubare», ma la sua prospettiva, ancora una volta, è assolutamente costruttiva: il possesso non è colpa ma occasione, è una chiamata all’amore. «Non rubare», infatti, per papa Francesco vuol dire: ama con i tuoi beni.

E così la catechesi su «non dire falsa testimonianza» non è solo un richiamo alla veracità ma una luce profonda su ogni atto umano, che proprio perché è umano è comunicativo, e quindi implica l’esercizio della verità. Questa verità, neanche a dirlo, è l’amore; ma non uno qualsiasi, bensì quello che Cristo ha manifestato. Infatti l’amore del Padre è creduto o meno in ogni nostro singolo atto, e in ogni nostra scelta manifestiamo se ci abbandoniamo o no alla sua Provvidenza. Alla fin fine testimoniare la verità è vivere da figli «lasciando emergere in ogni atto la grande verità: che Dio è Padre e ci si può fidare di Lui».

*  * *

Ed ecco le due udienze più importanti, quelle finali, che riguardano entrambe gli ultimi due comandi – che per la tradizione ebraica sono in realtà uno solo: non desiderare.

Le Parole «non desiderare il coniuge altrui; non desiderare i beni altrui» sono presentate in due parti come le due facce di una stessa realtà: la pars destruens e la pars construens. Non una senza l’altra.

Anzitutto c’è da ammettere i desideri malvagi, perché tutto il male nasce dal cuore, come dice Cristo stesso, e non guariremo mai l’uomo senza sanare l’origine dei suoi atti; comincia così la terapia che si gioca su quell’amarezza di cui si è parlato più sopra, che funge da valida diagnosi, ossia da buon punto di partenza per una terapia seria. E papa Francesco richiama esplicitamente il testo che ispira questa dinamica, ossia il settimo capitolo della Lettera ai Romani, laddove Paolo arriva a dire cose del tipo:

«Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto… infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio… Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (Rm 7,15.19.24).

Ammettere la sorgente del disordine dentro di sé e riconoscersi impotenti di fronte a questa dinamica interiore è la strada per arrivare alla verità che la legge non può che svelarci: che siamo poveri, che abbiamo bisogno di essere liberati da una dinamica distruttiva che è in noi. E il Papa dice senza mezzi termini: «È vano pensare di purificare il nostro cuore in uno sforzo titanico della nostra sola volontà: questo non è possibile».

Ecco manifestata la sorprendente logica della legge biblica per come in Cristo si compie: non serve ad addestrare un esercito di soldatini che cerchino inutilmente di riuscire a compierla ma a smascherare il cuore umano nella sua miseria, e arrivare allo scopo perseguito sin dall’inizio: «le ultime parole del Decalogo educano tutti a riconoscersi mendicanti».

E questo a cosa serve? Ad aprire il cuore allo Spirito Santo, l’unico che può mettere nell’uomo la vita stessa di Dio. E come farà?

Ecco l’ultima udienza: una descrizione semplice eppure abissalmente profonda del dono del cuore nuovo, un dono che passa per i desideri dello Spirito. Infatti: «… nella contemplazione della vita descritta dal Decalogo, … noi, quasi senza accorgercene, ci ritroviamo davanti a Cristo. Il Decalogo è la sua “radiografia”, lo descrive come un negativo fotografico che lascia apparire il suo volto – come nella sacra Sindone. E così lo Spirito Santo feconda il nostro cuore mettendo in esso i desideri che sono un dono suo, i desideri dello Spirito».

Il movimento di riferire ognuna delle Dieci Parole a Cristo non era un doveroso passaggio teologico ma la verità profonda del Decalogo. Le Dieci Parole descrivono la vita, il cuore, gli atti di Cristo, e, mentre mostrano una bellezza sconfinata, rivelano quel che più profondamente desideriamo, qualcosa che l’uomo ha in sé perché è creato ad immagine e somiglianza di quella bellezza.

In realtà le Parole sull’idolatria, sulla relazione autentica con Dio, sul vero riposo, sull’amore per le proprie radici, sulla cura della vita, sulla fedeltà, sulla generosità e sulla verità sono quel che desideriamo incontrare, quel che è bello, quel che è giusto e vero e ci dà gioia. È l’uomo, la donna che vorremmo essere e che da soli non possiamo essere, ma soprattutto è quel che la Chiesa annunzia essersi fatto carne in Cristo e in coloro che da Lui riscattati, ne ricevono lo Spirito.

Papa Francesco conclude:

«La vita nuova infatti non è il titanico sforzo per essere coerenti con una norma, ma la vita nuova è lo Spirito stesso di Dio che inizia a guidarci fino ai suoi frutti, in una felice sinergia fra la nostra gioia di essere amati e la sua gioia di amarci…

Ecco cos’è il Decalogo per noi cristiani: contemplare Cristo per aprirci a ricevere il suo cuore, per ricevere i suoi desideri, per ricevere il suo Santo Spirito».

Alla fin fine queste catechesi accendono questi desideri, fecondano la voglia di amare, e aprono all’opera di Dio in noi. Un seme che, come già detto, innesca il più biblico dei processi di salvezza: essere smascherati dalla legge per aprirsi alla grazia. Niente di nuovo, eppure tutto questo è sorprendente, consolante, incoraggiante, positivo, costruttivo.

Potremmo riassumere in una immagine la “svolta” che queste udienze possono dare a chi le accolga con semplicità e con profondità? La parola più ripetuta in tutte le catechesi, probabilmente, è “figlio”.

Il poter ricondurre tutta la logica dell’obbedienza a Dio da una mentalità da sudditi ad una fiducia da figli dipende dall’immagine che si ha di Dio, e il Santo Padre dice: «la prima norma che Dio ha dato all’uomo, è l’imposizione di un despota che vieta e costringe, o è la premura di un papà che sta curando i suoi piccoli e li protegge dall’autodistruzione? … I suoi comandamenti sono solo una legge o contengono una parola, per curarsi di me? Dio è padrone o Padre?», e aggiunge a braccio: «Dio è Padre: non dimenticatevi mai questo!».

Non siamo sudditi, siamo figli.

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