Papa Francesco – Il Padre Nostro (Catechesi)

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«Non ha bisogno di niente, il nostro Dio: nella preghiera chiede solo che noi teniamo aperto un canale di comunicazione con Lui per scoprirci sempre suoi figli amatissimi. E Lui ci ama tanto».
PAPA FRANCESCO

In un mondo che sembra aver confuso la sazietà con la felicità, papa Francesco indica nuovamente il cuore di tutto il messaggio del Vangelo, dedicando un ciclo di catechesi all’unica preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli: il “Padre Nostro”.

Si tratta, come ben evidenzia don Luigi Maria Epicoco nell’introduzione al volume, di una preghiera che insegna la preghiera, di una preghiera che ci svela quale deve essere l’orientamento del cuore che bisogna avere nella preghiera. Soltanto se ci ricordiamo che Dio è Padre, ha senso allora rivolgergli anche una parola, mettersi in ascolto della sua, comprendere, cioè, che nel cristianesimo la cosa che conta di più è la relazione.

Queste catechesi sono come una grande educazione che il Papa ci consegna attraverso la spiegazione del “Padre Nostro”. Sono parole che cambiano il nostro modo di stare al mondo, il nostro modo di essere cristiani, il nostro modo di credere, il nostro modo di pregare. Rendono ancora più splendenti le parole che Gesù ci ha lasciato nel Vangelo

Papa Franceco (Jorge Mario Bergoglio), Il Padre Nostro. Catechesi, Edizioni San Paolo 2019, pp. 128, euro 9,90

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Leggi una parte dell’introduzione di don Luigi Maria Epicoco

GESÙ, L’IMPERDONABILE

«Proprio per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio» (Gv 5,18).

Basta questa annotazione dell’evangelista Giovanni per comprendere subito il motivo per cui Gesù è ritenuto imperdonabile. Ma in realtà c’è anche un altro aspetto: Gesù pregava! e questo sembra andare contro la definizione stessa di Dio. Eppure, scrive il Papa, «Gesù pregava con intensità nei momenti pubblici, condividendo la liturgia del suo popolo, ma cercava anche luoghi raccolti, separati dal turbinio del mondo, luoghi che permettessero di scendere nel segreto della sua anima. […] Gesù pregava come prega ogni uomo del mondo. […] Loro vedevano Gesù pregare e avevano voglia di imparare a pregare: “Signore, insegnaci a pregare”».

Agli occhi dei suoi contemporanei Gesù è visto come chi viola la Legge, stravolge il sabato ma soprattutto stabilisce una relazione ritenuta sacrilega con Dio dichiarandolo il proprio Padre.

In entrambi i casi, soltanto una lettura superficiale può far credere che Gesù voglia abolire la Legge, il sabato, o semplicemente usare l’immagine del “Padre” per porre una vicinanza con Dio in maniera polemica con gli scribi e i farisei. La verità è che Gesù non è venuto ad abolire ma a portare a compimento (cfr. Mt 5,17). Egli non toglie nulla alla Legge ma la interpreta alla luce di una verità ancora più profonda, la libera, la cauterizza dal rischio di pervertirsi, perché essa non può diventare la trappola in cui inciampa l’uomo, la sua libertà, la sua dignità. La Legge è un trampolino da cui l’uomo può saltare fino ad arrivare nelle braccia di un Dio che non è semplicemente Onnipotente, Altissimo, il Dio Innominabile ma è innanzitutto un Dio che è Padre: ecco lo scandalo di tutto il cristianesimo! Gesù ha tentato con la sua vita di mostrare che Dio è Padre.

Dio però è innanzitutto il Padre di Gesù Cristo (cfr. Ef 1,3), ed è proprio grazie a lui che questa paternità si spalanca a tutto il resto dell’umanità. Scrive papa Francesco: «Non si tratta di usare un simbolo – in questo caso, la figura del padre – da legare al mistero di Dio; si tratta invece di avere, per così dire, tutto il mondo di Gesù travasato nel proprio cuore». La teologia ha trovato una formula concreta per esprimere tutto questo: siamo figli nel Figlio (cfr. Rm 8,15; Gal 4,6).

Vedere il Padre

«Mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8) domanda un giorno Filippo a Gesù riassumendo in maniera sintetica e straordinaria quello che c’è al fondo del cuore di ogni uomo. In fin dei conti tutti cerchiamo un padre, perché cercare un padre significa cercare un’appartenenza, qualcosa che riempia di significato la nostra esistenza. Cercare un padre significa vivere una vita che non è abbandonata al caso, che non va a finire nel nulla, che non è svuotata di senso. Cercare un padre significa cercare qualcosa che possa aiutarci a osare la vita e l’esistenza.

In questo senso pensare a Dio come un Padre significa pensarlo come Qualcuno che non soltanto crea la vita, dona la vita, ma soprattutto la rende possibile.

Tutto il ministero di Gesù è un ministero di liberazione: l’uomo che si porta addosso già la creazione, la vita biologica, la vita fisica, ad un certo punto deve incontrare qualcosa che renda la sua vita ancora più possibile, non semplicemente sul piano dei bisogni umani, ma soprattutto in base a quel desiderio di fondo che si porta nel cuore, un desiderio di felicità, che lo fa così diverso da tutte le altre creature.

In un mondo come il nostro che sembra aver confuso la sazietà con la felicità, papa Francesco indica nuovamente il cuore di tutto il messaggio del Vangelo, dedicando un ciclo di catechesi interamente alla preghiera del “Padre nostro”. In fondo è l’unica preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli. E lo è non in termini quantitativi ma soprattutto qualitativi.

Essa è una preghiera che insegna la preghiera. È una preghiera che insegna qual è l’orientamento del cuore che bisogna avere nella preghiera. Infatti soltanto se ci ricordiamo che Dio è Padre, allora ha senso anche rivolgergli una parola, mettersi in ascolto della sua, comprendere, cioè, che nel cristianesimo la cosa che conta di più è la relazione. Essa è più importante di una morale, di una teologia, di una dottrina, di una legge, di una religione e di una pratica religiosa che può diventare semplicemente maschera, ipocrisia (cfr. Mt 6,5).

Gesù denuncia spesso questo tipo di atteggiamento e lo fa non tanto per giudicare ma soprattutto per liberare l’uomo dall’illusione di una fede e di una religione vissuta in questo modo.

«Misericordia io voglio e non sacrificio» (Mt 9,13). È questa in fin dei conti l’unica vera grande richiesta che Dio rivolge sempre ad ogni uomo.

Gesù è venuto nella storia soprattutto per donarci di nuovo un cuore di carne, per farci ragionare in termini di misericordia, per liberarci dalla dittatura del sacrificio fine a se stesso.

È il paganesimo che si struttura commercialmente attorno all’idea del sacrificio, come se dovesse comprare, guadagnare, propiziare la divinità. E questo per un motivo molto semplice: esiste una religione che si annida nelle nostre insicurezze, nelle nostre ferite, in tutti quegli anfratti psicologici che cercano costantemente una rassicurazione più che l’incontro con Qualcuno. Possiamo inventarci un dio e inginocchiarci davanti a lui, ma questo non è il Dio di Gesù Cristo.

Allora per poter venir fuori da questo meccanismo pagano di fede, Gesù ci libera dalla logica della rassicurazione, dalla logica del sacrificio, della paura, del propiziare la divinità, e ci ricorda che soltanto quando all’uomo funziona l’umanità riesce a capire anche qualcosa di Dio, di quello stesso Dio che lo ha fatto a sua immagine e somiglianza: «Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

Le parole raccolte in questo volume sono parole secondo lo stile di papa Francesco. Sono parole che danno del tu. La sua è una teologia che guarda negli occhi, che sa rivolgersi alla vita di ognuno e lo fa con una disarmante semplicità ed essenzialità.

Papa Francesco sa benissimo che la fatica più grossa di un Pastore non è quella di cercare di dire cose nuove ma di saper dire le cose di sempre intessendole all’esistenza concreta della gente. Ecco perché le parole del Papa qui raccolte non hanno bisogno di commenti, non hanno bisogno di nessun’altra parola, perché essendo parole essenziali, semplici, pazienti, sagge, profonde, arrivano dritte al cuore di chi legge, senza bisogno di nessun altro aiuto.

Mi permetto solo di soffermarmi su quattro grandi coordinate che attraversano le parole di queste pagine, e che spero possano essere di aiuto a non sprecare nulla di quello che il Papa ci ha donato in queste sue catechesi.

1. Che sei nei cieli

Senza nessuna ingenuità, dobbiamo dire che la preghiera del “Padre nostro” presta il fianco anche a una grande sofferenza che rischia di agganciarsi al cuore di chi prega. Perché per rivolgersi a Dio come Padre e sentire nella parola “Padre” tutta la potenza del messaggio cristiano, bisogna aver fatto un’esperienza positiva di paternità. Quando invece veniamo da esperienze di paternità ferite, dove non abbiamo sperimentato né l’amore, né l’appartenenza, né la gratuità, ma il contrario di tutte queste parole, come è possibile rivolgersi a Dio chiamandolo Padre senza risvegliare dentro di noi tutta l’amarezza, tutto il dolore, tutta l’esperienza negativa che abbiamo fatto? Questo è il motivo, ci spiega il Papa, per cui quando ci rivolgiamo a Lui diciamo «che sei nei cieli». Stiamo stabilendo cioè che la paternità di Dio è una paternità completamente diversa da quella che sperimentiamo qui sulla terra e che la paternità sulla terra dovrebbe assomigliare alla sua. Ma anche quando non assomiglia alla sua, il Padre al quale ci rivolgiamo è un Padre che è radicalmente diverso da tutte quelle esperienze negative che abbiamo fatto.

Potremmo quasi dire che proprio nella sofferenza di pronunciare la parola “padre”, perché il padre non l’abbiamo sperimentato dentro la nostra esistenza, c’è tutto il grido e il bisogno di fare un’esperienza positiva di paternità. Solo così si riscatta la parola “padre” da tutti quei fraintendimenti ambigui che possono, invece di avvantaggiare la preghiera, renderla impossibile.

La parola “padre” racchiude da una parte un richiamo a un’immanenza, a una relazione che può essere sperimentabile nella vita di una persona, dall’altra un richiamo a una radicale diversità che viene espressa proprio con il prosieguo della frase: «che sei nei cieli». Scrive il Papa: «L’espressione “nei cieli” non vuole esprimere una lontananza, ma una diversità radicale di amore, un’altra dimensione dell’amore, un amore instancabile, un amore che sempre rimarrà, anzi, che sempre è alla portata di mano. Basta dire “Padre nostro che sei nei Cieli”, e quell’amore viene».

Chiedere l’amore non significa chiedere lo stesso amore che abbiamo toccato nella nostra vita, ma significa chiedere l’amore così come dovrebbe essere l’amore.

Non di rado vivere un’esperienza di sofferenza nella propria vita causata dall’amore ci fa chiudere al nostro rapporto con Dio.

Pregare significa fidarsi che Dio può farci fare un’esperienza positiva d’amore guarendo, lenendo, dandoci la forza anche di poter stare in piedi davanti a quelle ferite dell’amore orizzontale che abbiamo sperimentato.

2. Tu/Noi

La seconda caratteristica della preghiera del “Padre nostro” la troviamo nella completa assenza della parola “io”. Troviamo solo la parola “tu” e la parola “noi”, perché la preghiera autentica è tale proprio perché ci mette al sicuro dalla paranoia del nostro io. Molto spesso confondiamo la vita spirituale con il concentrarci su noi stessi, sulle nostre emozioni, sui nostri pensieri, sulla nostra esperienza, su quello che abbiamo vissuto. Non ci accorgiamo, invece, che la preghiera è proprio ciò che ci distrae da noi stessi, ciò che ci tira fuori dalla dittatura del nostro io che molto spesso ci fa avere delle dimensioni sbagliate della realtà intorno a noi e della nostra stessa vita. Quando l’uomo rimane chiuso dentro il proprio io vede le cose in una prospettiva insopportabile, vede le proprie sofferenze come insormontabili, vede i problemi intorno a sé come ingiustizia, percepisce la vita sempre come una questione personale che molto spesso gli va contro. In una parola: la realtà è nemica. La preghiera invece, proprio dando del “tu” e aprendosi alla grande famiglia del “noi” ci strappa dalla dittatura dell’“io”.

Gesù, insegnandoci a pregare così, sembra dire che per pregare autenticamente bisogna essere disposti a imparare a disobbedire un po’ al nostro io, ad alzare lo sguardo e fissarlo negli occhi di un Altro, e poter riconoscere nel volto di Dio, che si è manifestato proprio in Gesù, quel Padre che pensiamo nascosto nei cieli ma che, come dicevamo prima, è semplicemente la versione vera, autentica dell’amore.

«Chi vede me, vede il Padre» (cfr. Gv 12,45) aveva detto Gesù a Filippo, ecco perché non si può pronunciare la preghiera del “Padre nostro” senza passare attraverso il “tu” del volto di Cristo, per poi diventare il “noi” del volto dei fratelli che ci circondano. Infatti è proprio con loro che noi domandiamo il pane, il necessario vero per poter vivere la nostra esistenza. Non è semplicemente un pane simbolico, ma è il pane vero, il pane che ci dà sostentamento, per poi diventare pane in tutte quelle esperienze significative ed essenziali di cui ogni uomo ha bisogno. «Il Cristo – scrive il Papa – non è passato indenne accanto alle miserie del mondo: ogni volta che percepiva una solitudine, un dolore del corpo e dello spirito, provava un senso forte di compassione, come le viscere di una madre».

[…]

  • Tipo Libro
  • Titolo Il Padre Nostro. Catechesi – Introduzione di Luigi Maria Epicoco
  • Autore Francesco (Jorge Mario Bergoglio)
  • Editore San Paolo Edizioni
  • EAN 9788892220089
  • Pagine 128
  • Data settembre 2019
  • Altezza 20 cm
  • Larghezza 12,5 cm
  • Collana I Papi del terzo millennio