Don Gianluca Zurra – La fraternità, perchè?

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Resistere alla crudeltà del mondo

Fraternità perché? E quale fraternità? Queste le domande che Edgar Morin, intellettuale tra i maggiori del nostro tempo, ci pone in questo denso pamphlet.

Domande rese urgenti dalla drammatica crisi, insieme ecologica, sociale, politica e spirituale, nella quale siamo immersi su scala locale e planetaria. Condensando in poche pagine decenni di ampi studi transdisciplinari, Morin evidenzia come nella triade democratica libertà-uguaglianza-fraternità sia l’ultimo termine a dover oggi prevalere, pena l’aggravarsi ulteriore della crisi in atto.

La «comunità di destino terrestre» che coinvolge ormai tutti gli esseri umani necessita più che mai di quel «sentimento profondo di una maternità comune» che nutre le fraternità. E che ci chiede di saper dare vita a concrete «oasi di fraternità».

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PREFAZIONE

Di don Luigi Ciotti

È raro leggere libri come questo di Edgar Morin, libri sorretti da uno sguardo straordinario per ampiezza e profondità. Il grande filosofo e sociologo francese parla di un tema quanto mai delicato e cruciale. Un tema che può essere trattato superficialmente ma anche strumentalizzato, reso oggetto di discorsi retorici o propagandistici. Un tema senza dubbio enorme: la fraternità.

L’originalità dell’approccio di Morin viene, come detto, dall’impressionante ampiezza del suo sapere, da uno sguardo capace di analizzare il tema della fraternità da un punto di vista non solo etico-sociale ma anche biologico, antropologico, filosofico. E di conseguenza politico, perché è il vuoto di fraternità a determinare l’individualismo sfrenato che tanti danni ha prodotto e continua a produrre a livello sociale, ambientale, economico. Causa di disuguaglianze mai viste, migrazioni di massa per fuggire da carestie e guerre – “deportazioni indotte”, sarebbe più giusto chiamarle –, sfruttamenti ambientali che avvelenano gli ecosistemi e uccidono la biodiversità. E proprio dal concetto di ecosistema Morin parte per spiegarci che nella grande “rete” della vita l’armonia deriva dal concorso di forze diverse – la biodiversità, appunto –, ma è un equilibrio precario, instabile, in continua e necessaria evoluzione. La vita è tale perché capace di rinnovarsi e rigenerarsi, trasformando anche i conflitti in feconde tensioni verso un’armonia superiore. È questa dinamica di cooperazione la forza autentica della vita, ragion per cui è riduttivo affermare – come fa il darwinismo – che la natura è retta da un principio di “selezione”: sopravvive il più forte, il più adatto, il più capace di fronteggiare i mutamenti. La vita stessa dimostra infatti il contrario: sono la relazione e l’associazione le dinamiche fondamentali, le forze più potenti. Come se la vita, ogni volta che una singola parte prevale sulle altre o vive a loro scapito, intervenisse per ristabilire l’armonia, ossia la legge del bene comune.

E qui veniamo al punto cruciale e dolente. Se  infatti è vero che la natura ci offre un’impareggiabile lezione di vita su come costruire una convivenza dinamica e pacifica nel segno del bene comune, è anche vero, però, che l’essere umano non sembra più in grado di ascoltarla e farne tesoro. L’uomo si è messo in cattedra e tratta la natura come una proprietà, materia inerte da manipolare e da sfruttare, come se lui non ne facesse parte. Azione distruttiva e infine suicida, dettata da un delirio di onnipotenza di cui oggi si vedono le conseguenze: devastazione ambientale e violazione di quei principi di giustizia sociale attraverso cui il consorzio umano ha cercato, come la natura, di tutelare e promuovere la vita.

Non ho potuto fare a meno, leggendo queste pagine, di avvertire forti consonanze con quanto ha scritto papa Francesco nella Laudato si’. Quando Morin parla della triade scienza-tecnica-economia come di una forza che, se non governata da pensieri e azioni all’altezza, diventa distruttiva e autodistruttiva facendoci precipitare dal rango di homo sapiens a quello di homo demens, mi sembra denunci lo stesso pericolo individuato dal papa nel paradigma tecnocratico, modo di pensare e agire che detta legge in Occidente: approccio schematico che riduce l’ambiente a cosa e le persone a numeri, volgendo dunque la qualità – cioè la peculiare essenza di ogni forma di vita – in quantità, in puro dato statistico. Paradigma che persegue la logica del profitto e della cosiddetta “crescita”, senza però preoccuparsi che l’accumulo indiscriminato di capitali avvenga a beneficio di tutti. Insomma, un darwinismo sociale che considera la vita stessa come un bene esclusivo – non un diritto ma un privilegio – trincerandosi dietro inesistenti “leggi di natura” per giustificare la sua spietata, disumana e infine innaturale selezione. Ma come ricostruire legami di fraternità a fronte di tale devastazione sociale, ambientale, culturale? Anche qui sono forti le assonanze con la Laudato si’, laddove sottolinea che disuguaglianze sociali e dissesti ambientali sono conseguenze di un’unica crisi socio-ambientale e che non si può pensare di venirne a capo senza costruire un diverso paradigma, capace di farci vedere – e prima ancora percepire – la “rete della vita”, i legami di cui è costituita ogni singola creatura, saldando in un unico sguardo l’io e il noi, l’individuale e il sociale, l’umano e il naturale. Maestro del pensiero della complessità, Morin lo dice con parole chiare e profonde: «Per cambiare via si dovrebbe innanzitutto abbandonare il nostro modo di conoscere e il nostro modo di pensare – riduttivo, disgiuntivo, compartimentato – in favore di un modo di pensare capace di legare, di comprendere i fenomeni al tempo stesso nella loro unità e nella loro diversità, così come nella loro contestualità» (p. 50). È dunque innanzitutto culturale il cambiamento a cui siamo chiamati per riprendere un cammino di giustizia e quindi di vita, perché se manca giustizia non c’è vita ma solo (e neanche sempre) sopravvivenza.

Lascio al lettore la sorpresa e il piacere di scoprire quali siano per Morin i passi necessari per uscire dal vicolo cieco che l’Occidente si è costruito con le sue stesse mani, passi necessari non per “restare umani” ma per tornare a esserlo. Mi limito qui, in conclusione, a segnalare due punti particolarmente suggestivi e stimolanti. Il primo è quando Morin sottolinea la necessità di costruire un’identità non specifica e tantomeno esclusiva, ma antropologica, definita dall’appartenenza a una comunità di destino: «tutti gli esseri umani sono simili geneticamente, anatomicamente, affettivamente» scrive Morin, che poi aggiunge a queste somiglianze un’altra di cui troppo spesso ci dimentichiamo: «tutti sono mortali, e questa mortalità comune dovrebbe ispirare una mutua fraternità di compassione». Ecco, questa compassione che affonda le radici nella fragilità stessa della condizione umana e che può generare una fraternità solida e consapevole, non dettata dalle emozioni e dalle circostanze, mi sembra un pensiero su cui meditare a fondo. L’altro passo è quello in cui Morin ci invita a resistere, a costruire in quest’epoca tendenzialmente disumana “oasi di fraternità”, ma anche a non abbassare mai la guardia, a perseguire tenacemente quella ricerca che ci rende pienamente umani, a non soffocare mai quei dubbi e quelle domande che connotano una coscienza attiva e vigile, non accomodante, non addomesticata. Riproducendo così quel movimento di contrapposizione e ricomposizione, di fine e nascita che anima la vita organica, la meraviglia del creato. «Tutto ciò che non si rigenera, degenera» scrive Morin, con quella capacità di sintesi che denota il pensiero profondo. In questo caso il pensiero di un vero maestro, uno dei pochi che ci sono rimasti in questa Europa poco comune e per nulla fraterna, lacerata da egoismi, divisioni, sovranismi. Degenerata a causa del culto dell’idolo denaro, incapace di costruire bene comune.

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