Cerimonia di conferimento della laurea honoris causa al cardinale Gianfranco Ravasi

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Giovedì 7 settembre alle ore 11.00, in Aula Magna “Antonio Quistelli”, l’Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria ha conferito la laurea honoris causa in Giurisprudenza al cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura.

Questa la Lectio Magistralis di S.E.R. Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura:

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QUESTO IL TESTO DELLA LECTIO

«Viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini». L’affermazione del filosofo francese Paul Ricoeur fissa in un’istantanea simbolica una crisi che attraversa la società contemporanea: all’efflorescenza straordinaria degli strumenti tecnici, finanziari, mediatici, gestionali si accompagna spesso una vera e propria anoressia dei valori che reggono e orientano la scienza, l’economia, la comunicazione, l’etica e la stessa religione, quando queste realtà sono autentiche. La riflessione che proponiamo ambirebbe a considerare nell’orizzonte del diritto – che è una componente fondamentale della società – questo connubio tra norma e fine, tra prassi e progetto, tra codice e filosofia morale, tra procedura e ideale, tra giurisprudenza e ágraphos nómos, quella legge non scritta esaltata dall’Antigone di Sofocle (v. 453), in un passo divenuto così celebre da avere infinite riprese già nella classicità (Senofonte, Platone, Demostene, Tucidide, Filone etc.).

La natura umana

L’orizzonte tematico che ci proponiamo è evidentemente complesso e vasto, passibile di molteplicideclinazioni eanalisi. Seguiremo solo alcunetraiettorie di una mappa molto semplificata, basandoci su categorie antropologiche e sociali capitali, consapevoli che su di esse esistono prospettive interpretative diverse; anzi, in qualche caso, nelle loro fondamenta è transitato un terremoto culturale. Basti solo pensare al “politeismo dei valori” registrato già da Weber e ora assunto a statuto della cultura globale; oppure si può rimandare al soggettivismo applicato alla nozione di “verità” o alle sabbie mobili del relativismo etico. In questa incessante mobilità socio-culturale una categoria primaria e radicale da rimettere in circuito è quella di natura umana, ossia ciò che caratterizza l’identità della persona in senso “metafisico”, oltre la mera struttura fisica.

La domanda è sostanzialmente questa: è possibile nel pluralismo appena evocato recuperare un concetto condiviso di “natura” antropologica che impedisca di scivolare (o di accontentarsi) nella pura e semplice proceduralità sociale? Per rispondere – sia pure solo in modo “impressionistico” – a una questione così imponente, potremo risalire nel pensiero occidentale lungo due grandi fiumi ermeneutici, dotati di tante anse, affluenti e ramificazioni ma ben identificabili nel loro percorso. Il primo ha come sorgente ideale il pensiero aristotelico che per formulare il concetto di natura umana ha attinto alla matrice metafisica dell’essere. La base è, perciò, oggettiva, iscritta nella realtà stessa della persona, e funge da stella polare necessaria per l’etica.

Questa concezione dominante per secoli nella filosofia e nella teologia è icasticamente incisa nel motto della Scolastica medievale Agere sequitur esse, il dover essere nasce dall’essere, l’ontologia precede la deontologia. Questa impostazione piuttosto granitica e fondata su un basamento solido ha subìto in epoca moderna una serie di picconate, soprattutto quando – a partire da

Cartesio e dal riconoscimento del rilievo della soggettività (cogito, ergo sum) – si è posta al centro la libertà personale. Si è diramato, così, un secondo fiume che ha come sorgente il pensiero kantiano: la matrice ora è la ragione pratica del soggetto col suo imperativo categorico, il “tu devi”. Al monito della “ragione”, della legge morale incisa nella coscienza, si unisce la “pratica”, cioè la determinazione concreta dei contenuti etici, guidata da alcune norme generali, come la “regola d’oro” ebraica e cristiana («non fare all’altro ciò che non vuoi sia fatto a te» e «fa’ all’altro ciò che vuoi ti si faccia») o come il principio “laico” del non trattare ogni persona mai come mezzo bensì come fine.

Frantumata da tempo la metafisica aristotelica, si è però assistito nella contemporaneità anche alla dissoluzione della ragione universale kantiana che pure aveva una sua “solidità”. Ci si è trovati, così, su un terreno molle, ove ogni fondamento si è sgretolato, ove il “disincanto” ha fatto svanire ogni discorso sui valori, ove la secolarizzazione ha avviato le scelte morali solo sul consenso sociale e sull’utile per sé o per molti, ove il multiculturalismo ha prodotto non solo un politeismo religioso ma anche un pluralismo etico. Al dover essere che era stampato nell’essere o nel soggetto si è, così, sostituita solo una normativa procedurale o un’adesione ai mores dominanti, cioè ai modelli comuni esistenziali e comportamentali di loro natura mobili.

Èpossibile reagire a questa deriva che conduce all’attuale delta ramificato dell’etica così da ricomporre un nuovo fenotipo di “natura” che conservi un po’ delle acque dei due fiumi sopra evocati senza le rigidità delle loro mappe ideologiche? Molti ritengono che sia possibile creare un nuovo modello centrato su un altro assoluto, la dignità della persona, còlta nella sua qualità relazionale. Si unirebbero, così, le due componenti dell’oggettività (la dignità) e della soggettività (la persona) legandole tra loro attraverso la relazione all’altro, essendo la natura umana non monadica ma dialogica, non cellulare ma organica, non solipsistica ma comunionale. È questo il progetto della filosofia personalistica (pensiamo ai contributi di Lévinas, Mounier, Ricoeur, Buber).

Èquello che sta alla base della stessa antropologia biblica. Se, infatti, assumiamo la prima celebre pagina della Genesi, noi scopriamo che il parallelo esplicativo dell’«immagine» divina nella creatura umana è il suo essere «maschio e femmina»: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Genesi 1, 27). La trascendenza presente nell’umanità è, quindi, da individuare non tanto nell’anima (come dirà la successiva tradizione soprattutto cristiana) quanto nella relazione che unisce uomo e donna, nella loro capacità di amare e generare, riflesso del Dio creatore. Si configura, così, in un ambito più ampio interpersonale il concetto morale, esistenziale e religioso di amore e quello di solidarietà, coniugati in un equilibrio delicato con l’esigenza della giustizia.

La natura umana così concepita recupera una serie di categorie etiche classiche che potrebbero dare sostanza al suo realizzarsi. Proviamo a elencarne alcune. Innanzitutto la virtù della giustizia che è strutturalmente ad alterum e che il diritto romano aveva codificato nel principio Suum cuique tribuere (o Unicuique suum) sul quale ritorneremo: a ogni persona dev’essere riconosciuta una dignità che affermi l’unicità ma anche l’universalità per la sua appartenenza all’umanità. Nella stessa linea procede la cultura ebraico-cristiana col Decalogo che evoca i diritti fondamentali della persona alla libertà religiosa, alla vita, all’amore, all’onore, alla libertà, alla proprietà. Nella stessa prospettiva si colloca la citata “regola d’oro”.

In sintesi, l’imperativo morale fondamentale si dovrebbe ricostruire partendo da un’ontologia personale relazionale, dalla figura universale e cristiana del “prossimo” e dalla logica dell’amore nella sua reciprocità ma anche nella sua gratuità ed eccedenza. Per spiegarci in termini biblici a tutti noti: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (reciprocità), ma anche «non c’è amore più grande di chi dà la vita per la persona che ama» (donazione). Inoltre, in senso più completo, nel dialogo “io-tu” è coinvolto – come suggeriva il citato Ricoeur – anche il “terzo”, cioè l’umanità intera, anche chi non incontro e non conosco ma che appartiene alla comune realtà umana. Da qui si giustifica anche la funzione della politica dedicata a costruire strutture giuste per l’intera società. La riflessione attorno a questi temi è naturalmente più ampia e complessa e dovrebbe essere declinata secondo molteplici applicazioni, ma potrebbe essere fondata su un dato semplice, ossia sulla nostra più radicale, universale e atemporale identità personale dialogica.

Nello spirito del dialogo interculturale e interreligioso proprio di questa nostra considerazione, vorremmo concluderla con una parabola desunta dal mondo tibetano buddhista. In essa si immagina una persona che, camminando nel deserto, scorge in lontananza qualcosa di confuso. Per questo comincia ad avere paura, dato che nella solitudine assoluta della steppa una realtà oscura e misteriosa – forse un animale, una belva pericolosa – non può non inquietare.

Avanzando, il viandante scopre, però, che non si tratta di una bestia, bensì di un uomo. Ma la paura non passa, anzi aumenta al pensiero che quella persona possa essere un predone. Tuttavia, si è costretti a procedere fino a quando si è in presenza dell’altro. Allora il viandante alza gli occhi e, a sorpresa, esclama: «È mio fratello che non vedevo da tanti anni!».

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