mons. Giuseppe Mani – Commento al Vangelo di domenica 2 Ottobre 2022

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Aumenta la nostra fede!

Noi cristiani non abbiamo l’abitudine di indirizzarci a Dio con il tono della prima lettura. Crediamo che Dio non intervenga nel mondo a colpi di miracoli. O almeno non osiamo pensarlo perché indifferente ai nostri mali per intervenire, oppure ci rivoltiamo, ma allora diventiamo atei. Dobbiamo ritrovare l’atteggiamento di Israele. In effetti gli uomini della Bibbia non si rassegnano al male; non si rassegnano al silenzio di Dio. La loro preghiera è spesso protesta, litigio, braccio di ferro con Dio.

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Giacobbe lottò con l’Angelo fino al mattino. Così, dopo questa duplice lotta che lo oppose a Dio e agli uomini, Dio stesso gli cambia il nome: diviene Israele, cioè “forte contro Dio”. Nella prima lettura la risposta di Dio alla richiesta del profeta lo rinvia all’avvenire: “Aspetta!”. E, aspettando, Abacuc deve scrivere la profezia. Vittime della violenza, caduti nella povertà, gli uomini non hanno altro da mettere sotto i denti che un nutrimento: “il Libro”. Cioè a dire che “il giusto vivrà di fede”.

Due forme di fede. C’è una fede che crede che Dio ristabilisce l’ordine, elimina la violenza, restituisce la salute, riporta la pace “come il mondo può dare”. Fede onorevole che, in fondo, è quella di Israele che attende il Messia per restaurare tutto. Fede con cui si comincia sempre e che ispira tutte le nostre preghiere di domanda. La Bibbia la prende in considerazione e gli dona parole ed espressioni. Però questa fede sarà superata e attraversata e il più delle volte prenderà un’altra forma: la fede pasquale. Per la quale Dio non manda legioni di angeli per impedire di fare il male, né per sviare la nostra immemorabile lotta contro la natura e le sue contraddizioni.

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Noi crediamo che Dio ci dona il suo Spirito per mezzo del quale diventiamo capaci di far servire tutto per realizzare la sua immagine: la morte come la vita, la ricchezza come la povertà, la salute come la malattia. Niente può veramente nuocerci (Lc 10,19). Niente può separarci dall’amore (Rom 8,35-39). Non immaginiamo, però, di installarci immediatamente nella fede pasquale. Ogni volta che le cose non vanno come vorremmo, cominciamo con la prima forma di fede, con la protesta e la supplica e da lì avviene il passaggio alla fede pasquale. Così la fede e la preghiera che l’esprime sono esse stesse Pasqua, passaggio.

Gesù nel primo versetto del vangelo di oggi sembra smentire quello che dirà poi e rinviare alla prima forma di fede. Si guarda bene dal dimostrare quel che dice comandando all’albero di trapiantarsi nel mare. Potrebbe, come ci dice in Matteo 26,53, pregare il Padre di mandare dodici legioni di angeli e il Padre le avrebbe mandate. Soltanto non lo fa, perché la fede non ha come progetto di impedire alle cose di realizzare il loro corso: sarebbe proibire l’opera pasquale, l’opera della nostra salvezza.

Il significato di questa parola di Cristo in cui la fede è presentata come il poter realizzare l’impossibile, come poter sottomettere la natura stessa alla stessa libertà dell’uomo, ha un significato chiaro: realizzare l’impossibile per eccellenza; fare la vita con la stessa morte. Per questo Paolo presenta Abramo come il tipo stesso del credente, dell’uomo che ha creduto in Dio come Colui che con la morte fa sorgere la vita (Rom 4,17).

Il nostro problema è che noi tutti i giorni facciamo l’esperienza soltanto della morte e che è soltanto per la fede che noi crediamo nasca la vita. È vero che noi aspettiamo la totale padronanza dell’uomo sulla natura in ciò che ha di immortale per noi. Ma è la Pasqua, l’universo della resurrezione, è il settimo giorno del riposo di Dio e del riposo del mondo. Aspettando abbiamo la Parola, la Scrittura.

Facendo come Gesù camminiamo verso la nostra Pasqua, senza domandare agli alberi di piantarsi nel mare. Non dimentichiamo poi che l’albero nella Scrittura ci fa sempre pensare alla Croce, l’Albero della vita, e che il mare è sempre immagine della morte. Il Cristo pianterà questo Albero nelle nostre acque mortali.

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