Commento al Vangelo del 13 agosto 2017 – p. Raniero Cantalamessa

La barca era sbattuta dalle onde

L’ultima volta abbiamo lasciato Gesù e i discepoli in una situazione di grande gioia. Gesù ha appena moltiplicato i pani e i pesci; tutti hanno mangiato e si sono saziati. Fu quello -notavo l’ultima volta- il più straordinario picnic della storia. L’entusiasmo della gente per Gesù era alle stelle, tanto che qualcuno pensava addirittura di proclamarlo re.

Era bello dunque indugiare un po’ a godere della festa. Invece Gesù (e qui entriamo nel Vangelo di oggi) “ordina” ai discepoli di salire in barca e precederlo all’altra riva. Non vuole che si adagino nel successo e dimentichino qual è il cammino che hanno davanti. Lui intanto “congeda” la folla. Poco prima erano stati gli apostoli a suggerire a Gesù di “congedare” la folla. Ma Gesù non li aveva ascoltati; aveva voluto prima sfamare la gente. Ora che si sono saziati, può rimandarli in pace.

Congedata la folla, lui si ritira sul monte solo a pregare. Cala la notte. Sul lago si scatena un forte vento e la barca degli apostoli è sbattuta tra flutti. Gesù viene loro incontro “verso la fine della notte”, camminando sulle acque. Volendo sincerarsi che è proprio lui, Pietro dice: “Se sei tu, comandami di venire a te sulle acque”. Non vuole fare di testa sua in una cosa così seria, non vuole tentare Dio, e fin qui fa bene.
Gesù gli dice: “Vieni!”. Egli scende e cammina sulle acque verso Gesù. Quello che a un certo punto gli succede dentro, povero Pietro, nessuno lo sa. Fatto sta che il vento comincia a fargli paura e inizia ad affondare. Ha però la prontezza di gridare a Gesù: “Signore, salvami!”. Gesù stende la mano, lo tira su e gli dice: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?” Allora, tutti, presi da meraviglia, esclamano rivolti a Gesù: “Tu sei veramente il figlio di Dio”.
Fin qui il fatto. Ma i fatti del Vangelo non sono stati scritti per essere solo raccontati, ma per essere rivissuti. Ogni volta, chi li ascolta è invitato a entrare dentro la pagina di Vangelo, a divenire da spettatore attore, parte in causa. Questa è la differenza tra il Vangelo e ogni altro libro al mondo. Il Vangelo è un libro vivo, non morto.

La primitiva Chiesa ce ne dà l’esempio. Il modo con cui è narrato l’accaduto mostra che la comunità cristiana è già “entrata” dentro la storia, l’ha applicata alla sua situazione. Quella sera, congedate le folle, Gesù era salito sul monte solo a pregare; ora, al momento in cui Matteo scrive il suo Vangelo, congedatosi dai suoi discepoli, è salito al cielo, dove vive, appunto, pregando e “intercedendo” per i suoi. Quella sera spinse al largo la barca; ora ha spinto la Chiesa nel vasto mare del mondo. Allora si era levato un forte vento contrario; ora la Chiesa fa le prime esperienze di persecuzione.
In questa nuova situazione, cosa diceva ai cristiani il ricordo di quella notte? Che Gesù non era lontano e assente, che si poteva sempre contare su di lui. Che anche ora egli ordinava ai suoi di andare verso di lui “camminando sulle acque”, cioè avanzando tra i flutti di questo mondo, appoggiati unicamente sulla fede
Non sarà un compito sempre facile: ci saranno momenti di buio. Si domanderanno se Gesù non sia stato “un fantasma”, se cioè tutto quello che hanno vissuto e creduto di lui non sia stato un’illusione, un abbaglio. Ma quello che era accaduto a Pietro ricordava loro che Gesù non li avrebbe abbandonati neppure in questo caso. Alla fine, anzi, la prova sarebbe servita a rendere ancora più pura la loro fede, tanto da rendere capaci i martiri di proclamare di nuovo -questa volta, davanti a giudici e ai tribunali ostili- che Gesù Cristo è “veramente il Figlio di Dio”.

La stessa cosa, dicevo, siamo ora invitati a fare noi: applicare l’accaduto alla nostra personale vicenda umana. Quante volte la nostra vita somiglia a quella barca “agitata a causa del vento contrario”. La barca in difficoltà può essere il proprio matrimonio, gli affari, la salute…Il “vento contrario” può essere l’ostilità e l’incomprensione delle persone, rovesci continui di fortuna, la difficoltà di trovare un lavoro o la casa.
Forse, all’inizio, abbiamo affrontato con coraggio le difficoltà, decisi a non smarrire la fede, a confidare in Dio. Per un po’ abbiamo anche noi camminato sulle acque, cioè fidando unicamente sull’aiuto di Dio. Ma poi, vedendo la prova sempre più lunga e più dura, c’è stato un momento in cui ci è sembrato di non farcela più, di affondare. Abbiamo perso il coraggio.

Questo è il momento di raccogliere e sentire come rivolta personalmente a noi, la parola che Gesù rivolse in quella circostanza agli apostoli:
“Coraggio, sono io, non abbiate paura”.
“Coraggio!”. Ho voluto fare una piccola ricerca su questa esclamazione e sono giunto a una scoperta: essa si legge nei Vangeli e in tutto il Nuovo Testamento sempre e solo sulle labbra di Gesù:
“Coraggio, figliolo, i tuoi peccati ti sono perdonati”
“Coraggio, figlia, la tua fede ti ha guarita”
“Coraggio: io ho vinto il mondo!”
“Coraggio -disse Gesù apparendo una notte a Paolo-, è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma” (Atti 23,11).
C’è una sola eccezione, ma anche qui c’è di mezzo Gesù. È quando alcuni dicono al cieco di Gerico: ”Coraggio, alzati, (Gesù) ti chiama!”.

Coraggio deriva dalla parola “cuore” e significa, secondo un autorevole vocabolario italiano, “forza d’animo connaturata o confortata dall’altrui esempio, che permette di affrontare situazioni scabrose, difficili, avvilenti, anche la morte, senza rinunciare ai più nobili attributi della natura umana”.
È nota la frase con cui don Abbondio, nei Promessi Sposi, giustifica le proprie paure e vigliaccherie: “Il coraggio, chi non ce l’ha non se lo può dare”. È proprio questa convinzione che, Vangelo alla mano, dobbiamo sfatare. Il coraggio, chi non ce l’ha, se lo può dare! Come? Con la fede in Dio, con la preghiera, facendo leva sulla promessa di Cristo. Dicendo, o gridando, a noi stessi: “Ma Dio c’è e tanto basta!”.
Quante volte noi uomini ci diciamo l’un l’altro: “Coraggio, vedrai che tutto andrà bene!” Ma siamo canne sbattute dal vento che dicono ad altre canne di non tremare al vento! Le nostre parole non cambiano le cose, sono solo parole. Non così quando a dire “coraggio!” è Gesù. Egli ha “vinto il mondo”, ha avuto coraggio anche per noi. Per questo non dice semplicemente: Coraggio! ma “Coraggio, sono io!”. Io, il Figlio di Dio, colui che ha conosciuto il dolore, il buio, la morte. Sulla bocca di Gesù coraggio è una parola efficace, che produce quello che significa, dà quello che esige.
Qualcuno dice che questo coraggio basato sulla fede in Dio e sulla preghiera è un alibi, una fuga dalle proprie possibilità e responsabilità. Uno scaricare su Dio i nostri compiti. È la tesi sottintesa nella nota opera teatrale di B. Brecht, che porta significativamente il titolo di Madre Courage e i suoi figli. L’opera, ambientata in Germania al tempo della guerra dei Trent’anni, ha come protagonista una donna del popolo chiamata, per la sua decisione e intraprendenza, “Madre Coraggio”.

Il dramma si conclude con questa scena. Nel cuore della notte, le truppe imperiali, uccise le guardie, avanzano contro la città protestante di Halle per darla alle fiamme. Nei dintorni della città, una famiglia di contadini, che ospita Madre Coraggio con la figlia muta Kattrin, sa di non poter fare altro che pregare per salvare la città dalla rovina. “Non possiamo far nulla -dicono alla ragazza muta- per fermare il sangue che sta per scorrere. Anche se tu non sai parlare, almeno sai pregare. Se nessun altro ti sente, Lui ti sente”. Ma Kattrin invece di mettersi a pregare, si precipita sul tetto della casa, si mette a battere disperatamente su un tamburo, finché vede accendersi in città le prime luci e capisce che gli abitanti si sono svegliati e sono in piedi. Lei viene uccisa dai soldati, ma la città è salva.
La critica qui sottintesa (che è la critica classica del marxismo) colpisce l’atteggiamento di chi pretendesse di starsene con le mani in mano, in attesa che Dio faccia tutto lui, non la vera fede e la vera preghiera che è tutt’altro che passiva rassegnazione. Gesù lasciò che gli apostoli remassero contro vento per tutta la notte e usassero tutte le loro risorse prima di intervenire lui.

Ci sono situazioni nella vita, lo sappiamo bene, che neppure con la determinazione di Madre Coraggio e dei suoi figli si possono risolvere. Il Vangelo ci dice che anche in questi casi, quando, umanamente parlando, non c’è più nulla da fare, possiamo sempre gridare come Pietro al momento di affondare: “Signore, salvami!”.
Mi piace terminare questa riflessione con una parola di Dio che si legge in Isaia:

“Dio da forza allo stanco

e moltiplica il vigore allo spossato.

Anche i giovani faticano e si stancano,

gli adulti inciampano e cadono;

ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza,

mettono ali come aquile,

corrono senza affannarsi,

camminano senza stancarsi” (Isaia 40,29-31).

Moltissimi hanno sperimentato la verità di queste parole. Se siamo anche noi uno di questi “stanchi e spossati”, proviamo a “sperare nel Signore” con tutte le forze e spunteranno anche a noi ali di aquila.

padre Raniero Cantalamessa

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