Enzo Bianchi – Omelia Giovedì Santo 2016

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«Ciascuno esamini se stesso»

1Cor  11,23-32
23Io, Paolo, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane 24e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me. 25Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me. 26Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga. 27Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. 28Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; 29perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. 30È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. 31Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; 32quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati insieme con il mondo.

Ascolta l’audio dell’omelia, o leggila qui di seguito:

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Cari fratelli e care sorelle di Bose e di Cumiana,

[ads2]con questa assemblea al tramonto del giovedì santo siamo entrati in un’intensa comunione con Gesù, il Signore nostro, sul cammino della passione, morte e resurrezione, il cammino pasquale. Rinnovare ogni anno questo cammino fatto insieme, questo sýnodos, sinodo dei sinodi, vorrebbe essere un’immersione nella vita di Gesù, un coinvolgimento nei suoi atti e nelle sue parole. Certo, noi possiamo vivere questo Triduo santo semplicemente come un rito che non ci tocca, non ci ferisce e non cambia nulla nel nostro vivere, ma allora siamo tra i più miserabili di tutta la terra (cf. 1Cor 15,19). Attenzione, non si tratta di consumare emozioni, di precipitare in abissi e innalzarci in slanci gioiosi a livello psicologico: si tratta di fede, di adesione al Signore Gesù, senza misurare ciò che noi non possiamo misurare in noi stessi. Staccato lo sguardo da noi stessi, tesi a “tenere fisso lo sguardo su Gesù” (cf. Eb 12,2), cerchiamo soltanto che i segni della passione di Cristo siano impressi nel nostro corpo: “tà stígmata toû Iesoû en tô sómatí mou bastázo” (Gal 6,17).

Proprio perché questo processo avvenga efficacemente, predisponiamo soprattutto il nostro ascolto della parola del Signore, “viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio” (Eb  4,12), Parola che ferisce e guarisce. Quest’anno, secondo il ritmo che ci siamo prescritti, sostiamo sulla lettera dell’Apostolo, avendo commentato il vangelo lo scorso anno. L’omelia al vangelo sarà un’omelia in atto: la lavanda dei piedi, azione di chi presiede, di chi tiene il primo posto in comunità, nella chiesa, e con quel gesto dichiara la sua volontà di servire ogni giorno, quotidianamente, in modo ordinario e quasi sempre nascosto, quelli che gli sono stati affidati dal Signore e delle cui vite deve rendere conto al Signore stesso.

Conosciamo bene l’ammonizione di Paolo alla comunità cristiana di Corinto. L’Apostolo è stato informato di alcune patologie presenti nella vita comunitaria, di divisioni esistenti, di cordate e partiti che si riflettono nella celebrazione della cena del Signore, l’atto supremo della vita di koinonía. Il comportamento di quei cristiani non è conforme a ciò che celebrano. Che cosa succede? Succede che nella comunità domina un “fare per sé”, una sorta di protagonismo individualista che non lascia spazio né a una sinfonia, a un sentire comune, a una voce comune, né a una vera koinonía quale condivisione di tutto ciò che un cristiano è e ha in questo mondo.

Persino la liturgia, opera, azione comune, non è tale: i corinzi non sanno attendere l’altro, non sanno camminare insieme, non sanno neppure mangiare insieme. Questo per Paolo è un attentato alla celebrazione della cena del Signore, una contraddizione grave che rende epifanica l’ineguaglianza – chi ha molto e chi non ha nulla –, un affronto per i poveri. Che l’ineguaglianza esista fuori del contesto eucaristico è evidente, ma nello spazio della cena del Signore è una contraddizione blasfema. Non si può – dice Paolo – condividere il pane di Cristo, che è il suo corpo, tutta la sua vita, e poi rifiutare la condivisione del pane quotidiano. Ireneo di Lione giunge ad accostare due parole di Gesù, come pure Giovanni Crisostomo. Gesù – evidenziano questi padri – ha detto: “Questo è il mio corpo”, non solo sul pane (Mc 14,22 e par.; 1Cor 11,24), ma anche sul bisognoso, sul povero, sul malato, sul sofferente, e nell’ultimo giorno dirà: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare … Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare” (Mt  25,35.42). Solo così l’offerta, il sacrificio, sono misericordia perché sono dono all’altro, sono azione, sono un agire da parte di chi ha la vera conoscenza di Dio (cf. Os 6,6; 13,4).

L’eucaristia, questo mirabile sacramento-segno, ci narra il dono della vita da parte del Signore Gesù, ma si fa esigenza per noi affinché anche noi doniamo la vita per gli altri. Colui che ha detto: “Questo è il mio corpo”, è lo stesso che ha detto: “Ciò che avete fatto al più piccolo, l’avete fatto a me” (cf. Mt 25,40). “Il corpo di Cristo”: se fossimo capaci di dire questa parola e crederla, crederla con piena adesione non solo quando innalziamo il pane eucaristico o lo inalberiamo in un’ostensione per l’adorazione, ma anche quando con le mani tocchiamo un povero, abbracciamo un portatore di handicap, accarezziamo un bisognoso, un sofferente… Ecco il corpo di Cristo, anzi la carne di Cristo! Nell’eucaristia – diceva p. Pedro Arrupe – noi riceviamo il corpo di Cristo che ha fame, il corpo di Cristo che è oppresso e perseguitato, il corpo di Cristo che soffre di malattia e di abbandono. Quando ricevo il pane e il vino nella mia bocca, sono costoro che vengono a me e chiedono giustizia, aiuto, amore concreto! Finché i poveri sono nel mondo e non alla nostra tavola, la nostra celebrazione eucaristica è in qualche misura incompleta, mancante. Come siamo lontani da una certa retorica devota del “mio Gesù”, impoverito delle sue membra: un Gesù ideale, una nostra proiezione senza carne e sangue, un Cristo spogliato proprio della condizione che egli ha scelto per sé nella sua umanizzazione.

Ecco perché Paolo dice ai cristiani di Corinto: “Perché gettate disprezzo sulla chiesa di Dio, mettendo in evidenza chi possiede molto e chi non ha nulla?” (cf. 1Cor 11,22). E in modo ancora più penetrante: “Perché mangiate il pane e bevete dal calice senza riconoscere il corpo di Cristo che sono i poveri, il corpo di Cristo che è il corpo del tuo fratello, della tua sorella?” (cf. 1Cor 11,29). Al riguardo, Giovanni Crisostomo giunge ad affermare:

Fratelli, sorelle, se volete essere sacerdoti del Signore, praticate la condivisione dei beni. Se vuoi vedere l’altare, guarda alle membra di Cristo. Il corpo del Signore, corpo dei fratelli poveri e ultimi, è per te l’altare: veneralo! È più importante l’altare dei poveri che l’altare del culto. L’altare dei poveri non tiene su di sé il corpo di Cristo, ma è il corpo di Cristo. Vuoi onorare l’altare? Per strada, quando incontri un bisognoso, quello è l’altare su cui celebrare la liturgia della condivisione, dell’amore concreto, della comunione (cf. Omelie su 2Cor XX,3; PG 61,540).

Solo così l’eucaristia diventa il luogo in cui cadono tutte le barriere tra gli esseri umani, quelle barriere che Gesù con la sua morte distrusse per tutti. Sì, davanti all’eucaristia, occorre “esaminare se stessi” – “dokimazéto ánthropos heautòn” (1Cor 11,28) – per sapere se si discerne o no il corpo di Cristo, se si è capaci o no di farsi carico della carne di Cristo che sono i poveri, i bisognosi. Così siamo posti davanti

alla vita o alla morte,
alla salvezza o alla condanna,
alla comunione o all’isolamento.

Fratelli e sorelle, “finché egli venga” (1Cor 11,26) sentiamo le labbra che ci bruciano quando parliamo di poveri ripetendo le parole di Gesù; sentiamo la nostra mancanza di fede nel non vedere nei poveri la carne di Cristo da venerare. Eppure è così:

è più facile onorare un calice che vestire un povero;
è più facile fare sacrifici per il culto che fare sacrifici per l’altro;
è più facile fare una cattedra per i non credenti che fare una cattedra per i poveri.

Ma dobbiamo ricordarlo; saranno loro a giudicarci alla fine dei tempi, saranno dietro a Cristo, Cristo sarà il loro volto e si imporrà per sempre davanti a noi! Non ci resta che rinnovare il nostro proposito verso la carne di Cristo, i poveri, e realizzare questo comando quotidianamente, per quello che possiamo. E chi presiede più che mai deve vigilare affinché i poveri siano i primi destinatari del Vangelo e della nostra attenzione in comunità. La lavanda dei piedi dica almeno questo proposito e sia invocazione di misericordia. Amen!

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