Cultura della Comunicazione e Nuovi linguaggi

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E’ il tema dell’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, in programma dal 10 al 13 novembre, che sarà presentata mercoledì prossimo nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede. Alla presentazione è prevista la partecipazione, tra gli altri, di mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e di mons. Pasquale Iacobone, responsabile del dipartimento “Arte e Fede” del medesimo dicastero.

Sul tema al centro dell’Assemblea plenaria ascoltiamo proprio mons. Ravasi intervistato da Fabio Colagrande:

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R. – E’ innanzitutto il tema preliminare ad ogni incontro con il mondo della cultura: se non si ritrova il tessuto comune, cioè il lessico, la grammatica, persino la stilistica con cui rapportarci all’altro, incontrare l’altro, è impossibile poi passare ai contenuti. La nostra, quindi, non è semplicemente una riflessione sulla comunicazione sociale, come avviene anche per altri dicasteri della Santa Sede; è invece studiare la comunicazione a livello più alto, teorico, strutturale in modo tale che sia poi possibile passare ai contenuti del dialogo stesso, una volta trovata la sintonia nei linguaggi.

D. – Si può parlare di una difficoltà che c’è oggi nel mondo ecclesiale ad adottare un codice comunicativo comprensibile, sia all’interno sia nella comunicazione con il mondo esterno?

R. – E’ questo forse il problema centrale. Il movimento, innanzitutto, è centripeto: andare verso l’interno, verso noi stessi, perché tante volte – anche per noi – il linguaggio interno nella comunità ecclesiale è quasi del tutto afono. Pensiamo – non so – al linguaggio teologico così sofisticato, che non trova più riferimento in una popolazione cattolica, credente, praticante, che è nell’interno della chiesa e la domenica ascolta un’omelia, ma ha al suo interno – come linguaggio – il linguaggio televisivo, il linguaggio di internet, il linguaggio quotidiano. E’ necessario anche un movimento centrifugo, cioè verso l’esterno, verso la periferia perché la nostra comunicazione certamente deve avere una sua logica, una sua coerenza, un suo vocabolario proprio, però al tempo stesso deve cercare di lanciare il suo linguaggio ad un orizzonte nuovo, con linguaggi nuovi. Non dimentichiamo mai l’opera che, per esempio, ha compiuto San Paolo, quando è passato da una cultura che era profondamente semitica ad una cultura legata, invece, al mondo mediterraneo di allora, che aveva l’imprinting dell’ellenismo, della cultura romana. Per questo motivo abbiamo voluto fare l’inaugurazione della nostra Plenaria – cosa che non accade mai, perché è profondamente interna al dicastero – in Campidoglio: aprendola quindi idealmente ad un areopago come quello della città, in questo caso la città di Roma, in modo tale da avere già in apertura questo desiderio di interloquire a livello più ampio possibile.

D. – Rifletterete anche sugli effetti che la tecnologia, la nuova tecnologia, ha sul nostro modo di comunicare?

R. – Abbiamo pensato proprio di fare in modo che a queste plenarie, che di solito sono più interne ai dicasteri, per cui sono i membri consultori che parlano sulla base delle loro esperienze, siano convocate personalità molto diverse e specialistiche in questo ambito, che provochino domande, interrogazioni, qualche volta anche considerazioni e riflessioni. Appartengono a tutta la gamma – quasi l’arcobaleno – dei colori della comunicazione di oggi: c’è ancora la comunicazione artistica, c’è ancora la comunicazione liturgica, indubbiamente; ma noi abbiamo, per esempio, la comunicazione cinematografica e soprattutto abbiamo la comunicazione via internet, con i nuovi mezzi elettronici che parlano – come diceva un sociologo americano – di una svolta epocale. Anzi, questo studioso americano – Barlow – dice che abbiamo assistito, in questi ultimi decenni, ad una svolta simile alla scoperta del fuoco.

D. – Dunque, non è solo questione di imparare le nuove tecnologie, ma anche di mettere in discussione il proprio modo di comunicare, il proprio linguaggio …

R. – Noi, effettivamente, abbiamo un linguaggio che tante volte è – come si suol dire – autoreferenziale. E’ un linguaggio che è un po’ rinchiuso in se stesso, e anche quando usiamo parole semplici che sono parole ecclesiali, non hanno nessuna referenza immediata all’esterno, ma solo all’interno. Per questo motivo è necessario, senza perdere i propri contenuti, cercare però di fare quella operazione di cui parlava McLuhan, in cui il mezzo entra nel messaggio che comunica. E, certo, questo vuol dire anche qualche mutamento nel messaggio. Pensiamo al Concilio di Calcedonia: là è avvenuto un profondo mutamento per la comprensione della figura di Cristo – la cristologia – adottando categorie che non erano quelle della Bibbia, ma che erano della cultura greca!

D. – Quello a cui mirate è anche una svolta pastorale, non solo culturale …

R. – Noi vorremmo offrire la strumentazione per poter poi procedere a scelte innovative all’interno della catechesi. Anzi, io direi che il nostro compito è, prima di tutto, capire e comprendere in maniera chiara, netta ed essenziale quali siano i grandi percorsi della comunicazione contemporanea. In secondo luogo, far sì che si trovi una sorta di modalità espressiva di queste rilevazioni che facciamo e, alla fine, poi, ci sarà l’aspetto didattico-operativo, sul quale potremo anche noi essere presenti e sostenere le varie Conferenze episcopali che su questi temi, devo dire, si interessano. Io sono appena reduce dal Canada, dove ho incontrato lungamente i vescovi del Paese, e ho visto che loro hanno delle esperienze interessanti, ma tante volte ancora condotte con schemi che sono propri del mondo nord-americano ma non ancora aderenti ad un mutamento che là, poi, è stato ancora più forte. (g.f.)

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