Riscoprire e accogliere il dono della liturgia per la vita della chiesa.

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Prospettive e scelte pastorali in occasione della terza edizione italiana del Messale Romano

A cura di Luigi Girardi. File PDF disponibile qui.

Questo intervento si concentra sulla liturgia o, più propriamente, sulla “vita liturgica” delle nostre Chiese. Si tratta di un vissuto particolarmente importante, che merita di essere preso in profonda considerazione per i valori di cui è portatore e per alcune difficoltà che oggi reca con sé. Il lavoro svolto in ordine alla terza edizione italiana del Messale Romano e ciò che si potrà prevedere dal momento della sua promulgazione offrono un punto di approdo chiaro alla riflessione. Tuttavia è opportuno mantenere almeno in un primo momento l’orizzonte ampio sulla liturgia in genere.

L’ancoraggio al Messale Romano ci ricorda in ogni caso che il punto di riferimento del nostro lavoro è dato inevitabilmente dal rinnovamento voluto per la Chiesa del nostro tempo dal Concilio Vaticano II. Recentemente papa Francesco ha ricordato che «la riforma liturgica è irreversibile»1. Su questo solco può e deve muoversi, quindi, il cammino della pastorale liturgica, a sua volta necessario per realizzare i valori intesi e indicati dai padri conciliari e per sviluppare ulteriormente una “buona vita liturgica” nella Chiesa del nostro tempo. L’attenzione a questo obiettivo può certamente valorizzare e prolungare l’impegno che le Chiese in Italia nel loro insieme hanno già espresso in questi decenni.

1.  I motivi per una rinnovata attenzione alla liturgia

Anzitutto è utile ricordare e delineare, pur sinteticamente, i motivi principali per i quali siamo chiamati a dare nuova e vigile attenzione alla liturgia.

Il Concilio ci ha invitato a considerare e a collocare la liturgia nel cuore della vita della Chiesa. Lo ha fatto affermando che la liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa, né è la prima tra le varie azioni, ma nondimeno «è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia» (SC 10). Quella della liturgia all’interno della vita cristiana è una posizione particolare, che le deriva dalla speciale presenza di Cristo e dalla relazione vitale con Dio che si realizza in essa (cfr. SC 7), ma anche dalla particolare implicazione della Chiesa nella celebrazione (cfr. SC 26). Questa è “opera di Cristo e della Chiesa” e chiunque prenda parte alla celebrazione è reso partecipe di questa relazione. Così la liturgia inserisce la vita della Chiesa e di ciascun credente dentro una “comunione di presenze”, dono dello Spirito, da cui attinge forza e senso la nostra vita cristiana. Siamo chiamati a riscoprire questa verità sviluppando il collegamento della liturgia con l’intera vita cristiana, nel quadro di una “pastorale integrata” che rispetti la peculiarità della liturgia e, insieme, la connetta con le esperienze fondamentali della vita (cfr. “IV Convegno Ecclesiale Nazionale” di Verona 2006).

Sicuramente la promulgazione della terza edizione italiana del Messale Romano offre l’occasione preziosa di rimettere a fuoco non solo il nostro modo di celebrare l’eucaristia ma anche il suo valore per la vita della Chiesa. Forse la sfida maggiore sta nel vivere la liturgia eucaristica come «fonte». La celebrazione dell’eucaristia dà forma simbolica ad un modo di essere come Chiesa e come cristiani che è generato dalla grazia del donarsi di Cristo per noi. Questo modo d’essere, vissuto per grazia nell’eucaristia, è in grado di ispirare e di irradiarsi nel modo di essere della vita quotidiana. Il Messale Romano, adeguatamente conosciuto e praticato, può diventare “generativo” di una identità ecclesiale che ha in Cristo e nel suo Vangelo il criterio fondamentale. Non si deve dimenticare che, presumibilmente a breve, sarà da approntare anche una nuova edizione italiana della Liturgia delle Ore, la quale dovrà aiutarci a mettere a fuoco l’esperienza della preghiera ecclesiale.

Non ci si può nascondere che un motivo urgente per occuparsi della liturgia è dato da una difficoltà che si manifesta palesemente nelle nostre assemblee sotto forma di una “disaffezione” per la liturgia. Il calo numerico, soprattutto nella fascia d’età giovanile, è solo un segno esterno di un disagio che evidenzia spesso l’aridità dell’esperienza che facciamo nel celebrare. È vero che non tutto dipende dalla pratica liturgica; nella liturgia infatti si riflette la crisi attuale della vita di fede, ma anche viceversa. Tuttavia, senza affrontare una disanima più precisa delle cause, è utile raccogliere l’opportunità e la sfida che tale situazione ci presenta. La “disaffezione” alla liturgia infatti può essere la reazione corrispondente ad una pratica liturgica che non riesce a toccare sanamente la nostra sensibilità (è anestetica) e a risuonare sul piano emotivo (è anaffettiva). Questo è obiettivamente un limite pesante delle nostre liturgie, che impedisce loro di essere “significative” per i celebranti, ossia espressione di una relazione di valore a cui attingere forza e significato. Il rischio di scadere in una sorta di culto dell’emozione non deve impedirci di recuperare lo spessore estetico dell’agire liturgico e, con esso, la sua qualità spirituale. È confortante e incoraggia all’azione pastorale il fatto che questa situazione di “crisi di partecipazione” sia accompagnata in modo consistente dall’esigenza e dalla ricerca di una maggiore “qualità” delle celebrazioni. Ciò è emerso anche dal recente Sinodo su I giovani, la fede e il discernimento vocazionale, dal quale risulta che i giovani chiedono «momenti sacramentali capaci di intercettare la loro vita quotidiana, in una liturgia fresca, autentica, gioiosa» (Documento finale, n. 51).

A sostegno di questa prospettiva pastorale sta anche una più approfondita comprensione del valore dell’agire rituale, che dev’essere riguadagnata per poter dare fiducia alla pratica celebrativa. Il rito è costituito da una trama ordinata e pre-ordinata di azioni, che utilizzano in modo simbolico tutta la pluralità dei linguaggi di cui il nostro corpo ci rende capaci. Nella celebrazione non si parla solo con le parole, ma ancor di più con i gesti, le relazioni, i segni, gli spazi, i canti, i colori, le vesti, il silenzio… In realtà, la liturgia non è fatta per trasmettere contenuti dottrinali (pur non escludendo che si attui anche questa funzione), ma per far entrare nel mondo della fede tramite comportamenti rituali e atteggiamenti che valorizzano la persona nella sua integralità: corpo, affetti, mente. È in gioco il “vissuto rituale” della fede, ossia una memoria viva e vivificante di Colui che la fa nascere. Per questo motivo, l’agire rituale intercetta il vissuto del credente a livelli molto diversi e profondi, interessando la dimensione corporea, emotiva, affettiva, relazionale… fino alla dimensione intellettiva. Occorre che i gesti rituali abbiano uno spessore che sappia raggiungere tutti questi livelli e queste dimensioni. In tale prospettiva, una pratica celebrativa che valorizzi con fiducia la componente dell’agire rituale assume un valore strategico, giacché è in grado di essere assunta da persone diversissime (per cultura, storia, esperienza di fede…) attraverso molteplici vie di implicazione personale, e di far convergere tutti nella comune espressione di un rito che dà forma alla fede della Chiesa. È istruttivo riscontrare come ciò accada nel campo della pietà popolare, con una spontaneità che ci ricorda come l’agire rituale possa costituire anche per la liturgia una risorsa immediata con cui dire la fede e con cui dirsi credenti.

Le ragioni appena evocate incoraggiano a riprendere il cammino pastorale di approfondimento dei valori ispirativi della riforma liturgica conciliare, che in questo tempo hanno costituito e devono diventare sempre più il riferimento fondamentale per il rinnovamento liturgico. Tanti di questi valori sono stati ripresi e rilanciati in questi decenni dal magistero pontificio e dai documenti della CEI. Possiamo ricordare quelli che sono legati alla struttura di fondo del documento conciliare: il richiamo forte ad una azione liturgica intesa come opera di Cristo e della Chiesa (SC 7); il legame tra annuncio (Parola) e attuazione (Celebrazione) della salvezza (SC 6; 33; 35); la natura ecclesiale e partecipativa della liturgia e di ogni celebrazione (SC 14; 26-27; 41-42); l’adattamento della liturgia all’indole dei popoli, che si traduce in un processo di inculturazione da cui l’Italia non è affatto esentata (SC 37-40). Su queste linee di fondo, la nuova edizione del Messale Romano porta avanti con continuità di testi e gesti il cammino già avviato, cercando nel contempo di affinare e approfondire le indicazioni della riforma liturgica e dei documenti applicativi che ne sono scaturiti.

Da questo insieme di ragioni appare ancora più motivato e urgente il compito di alimentare e guidare l’impegno della pastorale liturgica nel momento storico che stiamo vivendo.

2.  Le prospettive per la pastorale liturgica

Nella seconda parte del mio intervento vorrei delineare alcune dimensioni e alcuni ambiti della liturgia che sono decisivi per promuovere ulteriormente la vita liturgica delle nostre Chiese. La comprensione del valore che è in gioco in questi aspetti della vita liturgica potrà far nascere e orientare – così ritengo – prospettive di impegno per la pastorale liturgica del prossimo futuro, anche in vista di una buona recezione della terza edizione italiana del Messale Romano.

2.1.    Il dono di poter celebrare

Il primo aspetto da sottolineare riguarda un atteggiamento fondamentale che deve essere promosso nei confronti della liturgia. Esso deriva dal valore che la liturgia apporta alla vita della Chiesa. Nella celebrazione la nostra fede trova il momento della sua realizzazione diretta e immediata e consegue il suo realismo sacramentale. La liturgia, con il suo ordo, ci pone davanti a Dio, disponendo il nostro rivolgersi e rispondere a Lui; stabilisce un modo tutto particolare di vivere le relazioni tra i partecipanti; pone ciascuno nella condizione di essere raggiunto, “toccato”, emozionato da quel Dio di cui, celebrandolo, si riconoscono il primato, la trascendenza ma anche la condiscendenza nei nostri confronti. In altre parole, si può dire che non si celebra semplicemente in vista di una grazia, ma che il celebrare stesso è anzitutto una grazia: in esso il Signore ci fa degni di stare davanti a Lui e di servirlo («nos dignos habuisti adstare coram te et tibi ministrare»: Messale Romano, Preghiera eucaristica II).

Nel celebrare prende forma ciò che siamo per grazia e ciò che siamo chiamati a diventare. Ciò avviene grazie al modo di agire proprio della liturgia, ossia all’agire rituale: un tipo di azione che abbiamo imparato a conoscere a livello di studio, ma di cui forse non ci siamo ancora appropriati a livello pratico. Compiere un rito significa sospendere il protagonismo di chi vuol essere “primo”, per accedere al protagonismo di chi si sente “parte” di un ordine e di una realtà più grande. Il rito sospende anche il normale rapporto di causa-effetto delle nostre azioni, per farci stare nell’atteggiamento di chi è aperto e affidato a Dio, senza la pretesa di piegarlo al nostro volere. Infine il rito ci fa assumere la nostra umanità e il nostro mondo in una logica simbolica, per cui essi divengono trasparenza della nostra relazione con Dio. Una comunità che “perde tempo” a celebrare il suo Dio, entrando in questa “forma rituale” della fede, entra in realtà in una “forma di vita” che “trasfigura” la nostra umanità e lascia trasparire la “bellezza” dell’opera di Dio che prende corpo in noi (cfr. il “V Convegno Ecclesiale Nazionale” di Firenze 2015). È un altro punto di vista o, meglio, un punto di vista “altro” sulla vita.

Ciò avviene, però, a condizione che si capisca la logica dell’agire rituale e la si rispetti, non riducendo la pratica liturgica ad altre pratiche della fede, né gestendola come occasione per inculcare contenuti etici o dottrinali. Naturalmente la liturgia contiene anche questi aspetti ma li fa vivere in una modalità propria, nella quale prevale la logica della sproporzione della grazia. Per questo occorre dare fiducia alla liturgia, anche e proprio nella sua modalità rituale di farci vivere la fede: una modalità umile e rispettosa, forte solo della propria consegna al mistero di Dio. Introdurre tutti, sia i fedeli sia i ministri, a questo atteggiamento è un compito urgente e non facile, dal momento che viviamo in una cultura  e in una società che tendono a far prevalere il nostro punto di vista individuale come misura della realtà e che sembra indicarci altre urgenze da perseguire. In realtà, il nostro riconoscere e “gustare” il primato di Dio nella liturgia è un modo fondamentale di crescere nella fede e di testimoniare la carità di Dio verso il mondo. Come ci ha recentemente ricordato Papa Francesco, «la Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della liturgia» (Evangelii Gaudium, n. 24).

2.2.    L’arte di celebrare

Strettamente connesso al primo aspetto è quello della promozione dell’ars celebrandi. Da questo punto di vista, il “modo” di celebrare è una questione sostanziale, non accidentale. Al valore della liturgia non si accede se non attraverso la sua celebrazione, quindi attraverso l’attivazione dei linguaggi rituali con cui prendono corpo le azioni celebrative. L’attenzione al modo di celebrare è importante anche perché i nuovi libri liturgici prevedono effettivamente un compito non di mera esecuzione, ma di attuazione matura di una “partitura” che richiede attenzione alle dinamiche del rito e alle variabili dell’assemblea. Giustamente nell’Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, per qualificare l’ars celebrandi, viene ricordata non solo l’obbedienza fedele alle norme liturgiche, attraverso i libri liturgici, ma anche l’importanza di sviluppare «l’attenzione verso tutte le forme di linguaggio previste dalla liturgia: parola e canto, gesti e silenzi, movimento del corpo, colori liturgici dei paramenti. La liturgia, in effetti, possiede per sua natura una varietà di registri di comunicazione che le consentono di mirare al coinvolgimento di tutto l’essere umano. La semplicità dei gesti e la sobrietà dei segni posti nell’ordine e nei tempi previsti comunicano e coinvolgono di più che l’artificiosità di aggiunte inopportune. L’attenzione e l’obbedienza alla struttura propria del rito, mentre esprimono il riconoscimento del carattere di dono dell’Eucaristia, manifestano la volontà del ministro di accogliere con docile gratitudine tale ineffabile dono» (Sacramentum caritatis, n. 40).

Ciò significa che l’agire rituale non ha propriamente norme esterne che lo determinano, ma ha anzitutto norme intrinseche («la struttura propria del rito») che devono essere rispettate e valorizzate: esse sono richieste dal tipo di atto che si compie (sia esso un movimento processionale, un gesto corporeo, un atto verbale, un canto, una pausa di silenzio…), il quale per raggiungere la sua efficacia deve dispiegarsi secondo la sua natura. Sembra che sia necessario riappropriarsi di questa arte, che tenga conto delle caratteristiche dell’attuale contesto ecclesiale, sociale e culturale e che dia un seguito “pratico” alle indicazioni che scaturiscono dai libri liturgici attuali. Gli ordines delle varie celebrazioni sono infatti la guida che consente di valorizzare e fondere insieme armonicamente i vari linguaggi del rito, opportunamente dispiegati.

Tra i compiti dell’ars celebrandi c’è anche quello di promuovere i ministeri liturgici che sono necessari all’attuazione della celebrazione e che esprimono la ricchezza carismatica del popolo di Dio. Non si tratta solo dei ministeri istituiti (dei quali, peraltro, si può auspicare una verifica e un ripensamento), ma di tutti i ministeri e servizi che sono  utili o necessari per una buona realizzazione delle celebrazioni liturgiche (dal ministrante  al coro, alla guida del canto e dell’assemblea…), riconoscendo volta a volta la possibilità  di incaricare uomini e donne che, adeguatamente formati, siano in grado di svolgere bene questi compiti (cfr. OGMR 107). La materia dev’essere inserita nel nuovo quadro ecclesiologico delineato dal Concilio Vaticano II e nell’ambito delle possibilità che la liturgia già prevede non solo per l’eucaristia (ad esempio, si veda OGMR 100-106), ma anche per gli altri rituali.

Questa attenzione alla ministerialità evidenzia anche il fatto che l’arte di celebrare non si risolve in una capacità individuale (come se fosse “l’arte del celebrante”) ma riguarda la capacità di coinvolgere e accordare adeguatamente tutti nell’unica azione celebrativa, valorizzando il contributo che ciascuno può dare. Per certi aspetti, si potrebbe parlare dell’esigenza di una “regia” interna alla celebrazione, in grado di armonizzare gli apporti di ciascuno.

2.3.    Liturgia e Parola di Dio

Sappiamo che la liturgia ha il suo riferimento principale nella Sacra Scrittura. Il dialogo con Dio, attraverso la sua rivelazione, passa proprio attraverso la proclamazione e l’ascolto credente delle Scritture. La liturgia è certamente luogo privilegiato di proclamazione, ascolto e venerazione della Sacra Scrittura come Parola di Dio. Di più, si deve riconoscere che essa è intrisa della Scrittura:

«Da essa infatti si attingono le letture che vengono poi spiegate nell’omelia e i salmi che si cantano; del suo afflato e del suo spirito sono permeate le preghiere, le orazioni e i carmi liturgici; da essa infine prendono significato le azioni e i simboli liturgici. Perciò, per promuovere la riforma, il progresso e l’adattamento della sacra liturgia, è necessario che venga favorito quel gusto saporoso e vivo della sacra Scrittura, che è attestato dalla venerabile tradizione dei riti sia orientali che occidentali» (SC 24).

Il valore della Parola di Dio nella liturgia, quindi, non è riducibile ai contenuti teologici che da essa ricaviamo, ma è legato anzitutto alla relazione con Dio che viviamo attraverso di essa. Cristo stesso «è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura» (SC 7). Il contesto liturgico della celebrazione della Parola vuole proprio custodire questa convinzione e favorirne l’esperienza. Il nostro impegno dev’essere chiaramente orientato a “celebrare” la Parola, ossia a farne il luogo dell’incontro con il Signore che “fa ardere in noi il nostro cuore” (cfr. Lc 24,32).

L’omelia, che si svolge all’interno della celebrazione, è certamente un modo importantissimo, anche se non unico, con cui si offre il proprio servizio alla Parola perché essa a sua volta possa illuminare la vita dei credenti e possa attualizzarsi nel momento stesso della celebrazione. L’omelia – ce lo ha ricordato papa Francesco – richiede «una seria valutazione da parte dei Pastori» (Evangelii gaudium, n. 135). Per esercitare al meglio il compito omiletico occorre una preparazione su molti fronti (esegetico, teologico, pastorale, spirituale, culturale, comunicativo…), ma occorre soprattutto una condivisione della finalità liturgica di questo momento, unitamente all’umiltà e alla passione per ciò che la Parola di Dio può far sorgere nella vita della Chiesa oggi. È utile per favorire questo compito una ripresa delle indicazioni date dall’Ordinamento delle letture della Messa (in particolare ai n. 24 e 41), oltre allo studio dei documenti magisteriali successivi che sono stati dedicati al tema della Parola di Dio o dell’omelia (in particolare, l’Esortazione apostolica postsinodale di papa Benedetto XVI Verbum Domini, n. 52-71, e quella di papa Francesco Evangelii gaudium, n. 135-144). Si possono incrementare anche laboratori di formazione pratica (alcune diocesi e anche l’Ufficio Liturgico Nazionale hanno curato simili proposte), con l’attenzione di non ridurre l’opportunità dell’omelia ad una questione di espedienti comunicativi o di prontuari di temi predicabili, che in realtà rischierebbero di sminuirne il valore più proprio.

2.4.    La formazione liturgica

Non occorre insistere su quanto sia decisivo l’ambito della formazione liturgica, per tutti: ministri e fedeli. Esso risulta cruciale non solo per l’esigenza “interna” alla Chiesa di essere iniziati e introdotti all’arte di celebrare, ma anche per l’esigenza “esterna” del contesto culturale e sociale in cui si attua la nostra vita liturgica, un contesto che attraversa e investe pienamente anche i soggetti celebranti. Non è il caso di fare una disanima della condizione attuale, spesso qualificata come “postmoderna”; si possono però richiamare alcune caratteristiche che condizionano pesantemente la nostra pratica celebrativa:

  • l’indebolimento del senso della fede in molti fedeli;
  • il conseguente allentamento del senso di appartenenza comunitario e la ridefinizione dei suoi criteri, con la necessità di ripensare il modo della Chiesa di essere presente sul territorio;
  • la difficoltà culturale nei confronti del modo di agire della liturgia (= il rito) che è fortemente connotato da un linguaggio di tradizione;
  • la mentalità prevalentemente individualista che fa prevalere criteri soggettivi nelle scelte celebrative (la rispondenza alla propria sensibilità, ai propri gusti estetici, alle proprie esigenze emotive), facendo della celebrazione stessa l’occasione per una auto- espressione.

Queste caratteristiche, prima che essere semplicemente “giudicate”; devono essere accolte come un dato della nostra condizione socio-culturale e si deve cogliere la domanda profonda di cui sono portatrici: una domanda che non si può eludere e che talora mette in luce una carenza del nostro modo di impostare la vita liturgica. Tali carenze possono facilmente offrire il fianco a sbilanciamenti verso un approccio troppo disinvolto al rito, come anche verso un approccio improntato alla rigidità, che si arrocca nostalgicamente su forme appartenenti ad un contesto non più presente. Entrambi gli approcci eludono il problema.

Si deve riconoscere anche che il contesto attuale ci provoca potentemente ad un investimento di energie pastorali, di studio e di formazione rispetto alla pratica del celebrare. Colpisce ad esempio l’esigenza (richiamata più sopra) che è emersa anche nel percorso del recente Sinodo sui giovani (ma che è estendibile anche alla fascia degli adulti) e che orienta non semplicemente verso forme “giovanilistiche”, ma verso celebrazioni “di qualità”, celebrazioni “significative”. Allo stesso modo, costituisce una sfida positiva l’esigenza di promuovere un modo di celebrare che favorisca la crescita del senso comunitario delle persone, che incontri l’esigenza di un coinvolgimento a livello emotivo e valorizzi adeguatamente la sfera del “sentire” (dimensione estetica), che provochi e alimenti una spiritualità profonda, sintonizzata con i bisogni del nostro tempo.

Di fronte a tutto ciò, per l’azione formativa si profila un compito che dev’essere declinato sotto un duplice aspetto: formare le persone perché siano in grado di accostarsi e inserirsi in modo fruttuoso nelle celebrazioni; formare la varia ministerialità nell’ars celebrandi perché lo stile celebrativo delle nostre comunità sia all’altezza del valore che la liturgia intende far vivere ai celebranti. Ne risulta un compito indubbiamente complesso. Esso richiede non tanto e non subito una attenzione ai contenuti, quanto piuttosto una cura per gli atteggiamenti giusti con cui entrare nella logica del celebrare: ritrovare il senso del gratuito, il gusto per l’espressione simbolica, la capacità di lasciarsi coinvolgere con il corpo e con la sensibilità affettivo-emotiva, il senso di partecipare ad una azione comune in cui è all’opera Dio stesso.

Occorre rafforzare le strutture formative, sia quelle che riguardano i ministeri ordinati e la più vasta ministerialità, sia quelle che raggiungono direttamente i fedeli. Si percepisce, a tal proposito, l’importanza recuperare lo stile mistagogico della formazione e di promuovere itinerari catechistici che affrontino con più coraggio e con maggiore larghezza il tema della liturgia e del vissuto celebrativo dei fedeli.

2.5.    Il canto e la musica liturgica

Il linguaggio sonoro della celebrazione è certamente uno dei più importanti per la liturgia. Esso è in grado di “cambiare volto” alla celebrazione, non tanto perché la rende “piacevole”, ma perché il canto e la musica, se ben utilizzati rendono possibili ed esaltano alcune funzioni proprie del linguaggio rituale. La musica infatti fa vivere un tipo di comunicazione differente da quello ordinario. Il canto, in particolare, eleva il linguaggio dal piano del semplice “dire” al piano del “celebrare”, connotando e dando corpo in maniera efficace ad atti specifici che non si riducono al piano contenutistico o verbale, ma divengono “atti e comportamenti” di lode, di esultanza, di invocazione. La dinamicità della musica è in grado di suscitare, raccogliere e ordinare le giuste tensioni emotive previste dal rituale e, in sintonia con gli altri linguaggi del rito, risulta una mediazione efficace per l’apertura al Trascendente. Naturalmente qui si intende il linguaggio sonoro in tutta la sua ampiezza: non si riduce al solo “fare canzoni”, ma comprende una pluralità di forme che vanno dal recitativo, alla salmodia, all’acclamazione, all’inno (solo per fare alcuni esempi), includendo anche il silenzio.

È evidente come la cura pastorale di questo aspetto della liturgia sia particolarmente difficile. Ciò è dovuto a diverse ragioni.

  • C’è una ragione anzitutto pratica: con l’avvio della riforma liturgica si è reso necessario dotare la liturgia di un nuovo repertorio che rispondesse ai criteri dei libri liturgici. Si è aperta di fatto una fase creativa, in cui sono emerse alcune proposte di valore e tante altre che probabilmente non sono all’altezza del compito. Attualmente buona parte della produzione di canti per la liturgia è legata a esperienze ecclesiali e a luoghi/forme di spiritualità molto caratterizzati (Gen e altri movimenti o associazioni ecclesiali, in particolare il Rinnovamento nello Spirito; Santuario di Lourdes, Comunità di Taizè…), pur permanendo anche produzioni informali di singoli autori o legate ad eventi ecclesiali (Giubileo, Giornate mondiali della Gioventù…). È molto variegata anche la realtà di chi svolge il servizio dell’animazione del canto: corali “tradizionali”, cori giovani, cori di bambini. Spesso le persone che dirigono questi gruppi hanno poca formazione liturgica specifica, al massimo una formazione musicale, in ogni caso tanta buona volontà.
  • C’è una ragione che investe il piano più riflessivo: spesso sul tema della musica gli esperti si pongono su posizioni nette, rigide e contrapposte, assolutizzando criteri assoluti di “stile musicale” o esigendo una qualità estetica predefinita. Questo clima aumenta la distanza tra i soggetti e impedisce loro di cogliere altre ragioni che non siano quelle già abbracciate da ciascuno. Ciò che ne consegue sono i frequenti discorsi lamentosi sullo stato della musica liturgica, tanto insistenti quanto
  • Vi è infine una ragione che riguarda l’aspetto istituzionale: si tratta di capire quale sia il modo migliore per intervenire con efficacia in questo campo. Si può constatare infatti che la diffusione dei repertori liturgici segua percorsi propri, in base alla reperibilità di canti che si impongono nell’uso in forza del loro valore percepito. I documenti ufficiali possono servire a orientare le scelte, a tener vivo l’interesse e a coltivare lo studio. Lo stesso Repertorio Nazionale dei canti è uno strumento utile in tal senso, anche se ne misuriamo tutti l’incidenza relativa. L’Ufficio Liturgico Nazionale ha da tempo dato spazio a percorsi di formazione specializzata, di cui però non è sempre facile cogliere l’effettiva ricaduta. Le scuole diocesane di musica sacra paiono essere una realtà non molto significativa, se non in alcuni casi di eccellenza, e soprattutto non sono organizzate in modo unitario e organico, ma dipendono fondamentalmente dalla sensibilità di coloro che le guidano. In altre parole, è difficile avere il polso e incidere su questa realtà molto

Questo quadro non deve però impedire di riconoscere che il percorso che è stato fatto porta con sé anche dei risultati acquisiti e delle produzioni buone in termini di repertorio. Anche la nuova edizione del Messale Romano potrà contribuire a porre l’attenzione su questo aspetto, rilanciando l’esigenza di una competenza musicale che riguarda ad esempio le forme recitative. Si dovranno comunque individuare le modalità istituzionali da potenziare per essere più incisivi e per diffondere un repertorio di buona qualità liturgico- musicale, per favorire processi formativi a tutti i livelli (dai conservatori alle scuole diocesane di musica; dai compositori ai direttori di coro; dai ministri che presiedono alle guide del canto assembleare). Non è da trascurare la cura per gli eventi ecclesiali di vario livello (diocesano, regionale, nazionale), in quanto possono fare da cassa di risonanza per la diffusione del repertorio. Sarà prezioso il contatto con le esperienze aggregative e di spiritualità che sono di fatto il luogo di promozione più diffusiva dei canti.

2.6.    Sfide pastorali

Il campo della vita liturgica deve affrontare anche altre sfide pastorali e intercetta problematiche che toccano il quadro pastorale in senso più ampio. Ne nominiamo alcune:

  • il rinnovamento dei percorsi di iniziazione cristiana;
  • le celebrazioni domenicali in assenza di una celebrazione eucaristica e, in connessione, il necessario ripensamento della territorialità del servizio pastorale e il tema della festa;
  • la costruzione di nuove chiese, l’adeguamento delle preesistenti, la valorizzazione e l’incremento del patrimonio

Si tratta di problematiche che per lo più sono già affrontate in altre sedi, avendo bisogno di competenze di diversa natura. Per questo motivo si ritiene di non farle diventare oggetto di discussione in questa occasione. Tuttavia esse aiutano a prendere coscienza della consistente ampiezza e rilevanza che l’ambito della vita liturgica viene ad assumere, a partire dalle sfide che il contesto socio-culturale pone alla Chiesa.

3.  Conclusione: verso gli orientamenti e le scelte pastorali

L’intervento si ferma a questo punto. Abbiamo cercato di motivare l’esigenza di una rinnovata attenzione alla pastorale liturgica, richiamando gli aspetti più rilevanti che la raccomandano. Abbiamo poi individuato cinque ambiti che possono catalizzare le forme concrete dell’impegno pastorale. Una ulteriore delineazione delle scelte pastorali potrà e dovrà emergere più chiaramente dal dialogo tra i Vescovi, nei due momenti previsti di confronto a gruppi, e ovviamente dall’intero processo di discernimento ecclesiale che coinvolge la Chiesa nella sua interezza.

La convergenza su alcuni orientamenti generali sarebbe auspicabile anche per individuare alcune scelte operative, da tenere sia a livello nazionale come anche di Chiese particolari. Il frutto di questo lavoro potrebbe essere valorizzato in vista di accompagnare (con un testo?) la pubblicazione della terza edizione italiana del Messale Romano.

1 Discorso del santo padre Francesco ai partecipanti alla 68.ma Settimana Liturgica Nazionale, 24 agosto 2017.