Novena di Natale – 25 Dicembre

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Messa del giorno

Is 52,7-10; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18.

Is 52,7-10: Regna il tuo Dio!

52,7-10. Al poema di 51,9-52,2 (3-6) segue questo brano che condensa in poco spazio immagini poetiche e motivi teologici di straordinaria ricchezza. Il brano, pervaso dall’inizio alla fine da una gioiosa esperienza di salvezza, si articola in due parti.  I vv.  7-8 proclamano il ritorno del Signore a Sion con l’immagine del re che entra nella sua capitale dopo aver realizzato la vittoria decisiva sui suoi nemici. I vv. 9-10 sono, invece, un inno di lode che svolge una funzione analoga agli altri distribuiti nei cc. 40-55 e quindi costituisce la degna conclusione della presente sezione. La somiglianza del v. 7 con Na 2,1 e l’affinità dei vv. 9-10 con 40,9-11 costituiscono un forte indizio per ritenere che il nostro versetto non appartenga al Deuteroisaia, ma sia da mettere in rapporto con l’entusiasmo suscitato dall’opera di Neemia.

7-8. Nella gioia di un evento fondamentale per Gerusalemme il poeta contempla il messaggero che sui monti reca il lieto annuncio (v. 7). Questo vangelo si caratterizza anzitutto con tre sostantivi nei quali si condensa la speranza di Sion: pace, bene, salvezza. Il vertice e la sintesi del lieto annuncio sono costituiti dall’acclamazione Regna il tuo Dio.  La  formula  consueta  Il  Signore  regna  (Sal  93,1;  97,1; 99,1; 96,10 (cfr. 1 Cr 16,31) o Regna il Signore (cfr. Sal 47,9; Sof 3,15; Is 24,33) è qui modificata in modo che colui che si manifesta come re salvatore e vittorioso appaia come il Dio che si unisce con il vincolo dell’alleanza alla sua città e, conseguentemente, al suo popolo (il tuo Dio).

Eb 1,1-6: Dio ci ha parlato per mezzo del figlio Gesù.

Il nostro viaggio all’interno di questa grandiosa lettera-omelia, simile a una cattedrale al cui centro domina la figura di Cristo sacerdote perfetto della nuova alleanza, si apre con l’ascolto del prologo, composto in un greco elegante, un vero e proprio gioiello di stile e di costruzione. In esso si delinea una sintesi della rivelazione di Dio nella storia, culminata in Gesù, il Figlio, definito «irradiazione della gloria e impronta della sostanza» divina, espressioni di matrice biblica (Sapienza 7,2526), destinate ad affermare la divinità di Cristo, la cui opera di salvezza è la «purificazione dei peccati» umani, compiuta con la sua morte e glorificazione. Nella prima parte dello scritto si vuole esaltare Cristo come Dio e come uomo (1,5-2,18): egli è superiore agli angeli (1,5-2,4), eppure è solidale con l’umanità (2,5-18).

Per dimostrare la sua tesi, il nostro autore ricorre a una serie di citazioni bibliche, rilette alla luce della figura di Cristo. Sono ben sette testi antico-testamentari, nei quali predominano i Salmi (2,7; 45,7-8; 97,7; 102,26-28; 104,4; 110,1), ai quali si aggiungono due passi, l’uno tratto dal celebre oracolo del profeta Natan destinato a Davide («Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio», 2Samuele 7,14) e l’altro desunto dal Deuteronomio (32,43). Le citazioni sono basate sull’antica versione greca dei Settanta, usata dalla prima comunità cristiana. Da questo florilegio di frasi bibliche si intuisce che, attraverso la rivelazione divina, è possibile secondo l’autore dimostrare l’assoluta superiorità di Gesù Cristo rispetto agli angeli: egli è per eccellenza il Figlio di Dio, consacrato sovrano eterno e universale, adorato dalle creature angeliche.

Gv 1,1-18: Sì, il Verbo si è fatto carne!

Il «Verbo». È la traduzione del termine greco Logos (“parola”). È l’ambiente biblico a ispirare il titolo, che indica la rivelazione di Dio e la sua azione creatrice attraverso il Logos-parola.

Il prologo del vangelo di Giovanni è affidato a un inno di straordinaria bellezza e densità, divenuto una delle pagine più celebri dell’intera Bibbia. L’avvio rimanda allusivamente e tematicamente all’inizio della Genesi: «In principio… Dio ordinò…» (1,1.3). Il Cristo è presentato come Logos (“Parola”, “Verbo”), termine che rimanda alla cultura greca ma che ha le sue radici nell’Antico Testamento, che celebrava la parola creatrice divina, la sapienza del Signore che tutto ordina nell’armonia dell’essere. Cristo è, dunque, alle origini della realtà e della vita ed è nella pienezza della divinità. A questo primo momento ne succede un altro che rappresenta la storia della salvezza.

L’immagine usata è quella, antitetica, della luce e della tenebra, il cui scontro rappresenta la vicenda di Gesù Cristo, annunziato da Giovanni il Battista, che nell’inno appare due volte nella sua funzione di precursore (questa sottolineatura della dipendenza assoluta a Cristo ha fatto pensare ad alcuni studiosi che, qui e altrove, l’evangelista volesse riferirsi polemicamente ai gruppi che consideravano il Battista in una dimensione messianica). L’ingresso di Cristo-luce nella storia crea tensione e rifiuto, ma anche accettazione nella fede. È quest’ultima, inoltre, a rendere gli uomini figli di Dio, “generati” dallo stesso Dio che è il Padre di Gesù.

L’Incarnazione di Cristo è espressa nel famoso versetto 14 con l’immagine della tenda («venuto ad abitare», che in greco suona letteralmente: «ha posto la sua tenda»): il tempio di pietra di Sion come si dirà esplicitamente in 2,18-22 è o sostituito dalla “carne” di Gesù, cioè dalla sua corporeità dalla sua esistenza storica che condivide con noi. Il Logos, la Parola eterna e infinita, entra nelle dimensioni umane dello spazio e del tempo, della vita della morte. Il tema dell’incarnazione, centrale nel vangelo Giovanni e nell’intero Nuovo Testamento, è particolarmente marcato negli scritti giovannei, probabilmente in reazione al sorgere delle dottrine gnostiche che negavano appunto il Verbo divino fatto carne, volendolo conservare nella purezza assoluta della sua trascendenza.

L’inno si conclude con un’ulteriore testimonianza del Battista, che ribadisce il primato di Cristo che è “prima” di lui, anche se venuto cronologicamente “dopo” nella storia umana. Si esalta poi la missione del Figlio di Dio presso l’umanità. Egli offre all’uomo soprattutto «la grazia e la verità». La “grazia” è la salvezza che viene effusa in pienezza: l’espressione: «grazia su grazia», più che suggerire una successione (prima l’Antico e poi il Nuovo Testamento o prima Cristo e poi lo Spirito Santo), vuole indicare appunto un’effusione costante e piena della salvezza. La “verità”, invece, nel linguaggio giovanneo è la rivelazione di Dio e del suo mistero che Cristo, «Figlio unigenito, che è nel seno del Padre», può donare al mondo senza riserve e con autenticità.

Dopo il prologo, ha inizio la prima parte del vangelo di Giovanni, che si concluderà nel capitolo 12 e che è chiamata da alcuni commentatori il “Libro dei segni” perché l’evangelista vi distribuisce sette “segni”, cioè sette miracoli emblematici compiuti da Gesù. È il tempo della rivelazione di Gesù davanti ai “suoi”, cioè a Israele, e all’intera umanità. Come accadeva anche negli altri vangeli, entra in scena Giovanni il Battista, il cui profilo è disegnato in modo originale dal quarto evangelista. Egli insiste, infatti, nel ripetere che il Battista non è il Messia (“Cristo”), ma solo colui che deve rivelare l’ingresso del Messia nella storia.

E, infatti, nel centro di Betania, «al di là del Giordano» (sconosciuto agli archeologi, ma forse da identificare con la località di Ennon-Sapsafas, in Transgiordania), Giovanni indica in Gesù «l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo». Questa espressione allude al Servo sofferente del Signore, figura interpretata messianicamente dal cristianesimo, cantata da Isaia (capitolo 53) e presentata come l’agnello condotto al macello e capace di portare su di sé i peccati del popolo (Isaia 53,4.7). Naturalmente non manca anche il rimando all’agnello pasquale di Esodo 12,46 (vedi Giovanni 19,36). Lo Spirito Santo che «scende e rimane» su Gesù è il sigillo della sua messianicità, ma anche della sua divinità («Figlio di Dio»).

«Betania, ai di là del Giordano». Questa località viene così designata per distinguerla dalla cittadina omonima, vicina a Gerusalemme, patria di Lazzaro, suo «amico», e delle sue sorelle Maria e Marta (Giovanni 11,1.-44). Recenti scoperte archeologiche tenderebbero a identificarla con Ennon-Sapsafas, nei pressi del wadi Kharrar, in Transgiordania.

Lc 2: Anche Gesù, come Giovanni e ogni Ebreo, viene circonciso ed entra così nella comunità del popolo di Dio. Viene poi condotto al tempio per essere “riscattato”: infatti, in memoria della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, ogni primo maschio ebreo era consacrato al Signore (Esodo 13,2) e la famiglia lo riacquistava al suo interno attraverso un’offerta che anche Maria e Giuseppe presentano ai sacerdoti nel tempio gerosolimitano. È qui che essi incontrano due figure che incarnano i “poveri del Signore”, cioè i fedeli veri, Simeone e la vedova anziana Anna. Sono costoro, mossi dallo Spirito Santo, a riconoscere in quel neonato «la redenzione di Gerusalemme» e «il conforto d’Israele».

Di particolare rilievo è la figura di Simeone, «uomo giusto e timorato di Dio». Egli si rivela come un profeta perché sa scorge-re la grande missione di quel bambino, destinato a essere il centro della storia, un «segno di contraddizione», con il quale si dovrà confrontare tutta l’umanità nell’accettazione o nel rifiuto, nella salvezza o nel giudizio. A questa tensione parteciperà pure la madre, la cui anima sarà trafitta dalla spada del dolore e della divisione che il Figlio introduce con la sua presenza. A Simeone è messo in bocca anche l’ultimo degli inni che costellano il “vangelo dell’infanzia”. Esso è noto con le prime parole della versione latina: Nunc dimittis, ed è entrato fin dal V secolo nella preghiera serale della liturgia, la Compieta. In realtà è un saluto festoso all’alba messianica, che si sta schiudendo per Israele e tutti i popoli della terra.

A dodici anni, più o meno quando in Israele si raggiungeva la maggiore età, Gesù si reca al tempio con i suoi genitori per la festa di Pasqua. La scena di Gesù tra i dottori ha il suo vertice nella risposta che egli dà a Maria che gli ricorda l’ansia con cui l’ha cercato insieme a Giuseppe: «Io devo occuparmi delle cose del Padre mio» (o anche: «Io devo stare nella casa del Padre mio»). Ormai egli rivela la sua missione e, anche se rimane sottomesso ai genitori terreni, il suo destino è quello di essere l’inviato del Padre celeste.

“Dopo la fredda stagione invernale sfolgora la luce della mite primavera, la terra germina e verdeggia di erbe, si adornano i rami degli alberi di nuovi germogli e l’aria comincia a rischiararsi dello splendore del sole.

Ma per noi c’è una primavera celeste, è il Cristo che sorge come sole dal grembo della Vergine. Egli ha messo in fuga le freddi nubi burrascose del diavolo e ha ridestato alla vita i sonnolenti cuori degli uomini dissolvendo con i suoi raggi la nebbia dell’ignoranza”

(Omelia natalizia, PG 61, 763)

“Nella ‘giustizia’ di Giuseppe e nella ‘verginità’ di Maria
risplende il ‘paradosso’ evangelico della forza
della debolezza”.

(GiovanniPaolo II)

“In ogni generazione naturale è l’uomo,

cosciente del suo potere, forte della sua volontà, fiero della sua potenza creatrice, l’uomo autonomo e sovrano, che si trova in primo piano.

Il processo della generazione naturale non è segno adeguato al mistero della nascita di Cristo. Infatti questo processo è segno della potenza quasi cosmica dell’eros umano. Per designare questa potenza l’unione sessuale è il segno più ricco e più significativo.

Ma la generazione naturale non potrebbe essere considerata come segno dell’Agape divina, la quale non cerca il suo interesse.

La volontà di potenza e di dominio dell’uomo, come si esprime in particolare nell’atto sessuale, indica tutt’altra cosa che la maestà della misericordia divina.

Ecco perché è la verginità di Maria,
e non l’unione di Giuseppe e di Maria, che è il segno della rivelazione
e della conoscenza del mistero del Natale.

(Karl Barth)

A cura di P. ERNESTO DELLA CORTE biblistaFile PDF completo