La comunione fraterna: da Babele a Pentecoste

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Cosa è la comunione fraterna? Un puro ideale o una realtà pienamente raggiungibile? Succede che spesso si parla di quello che meno si vive, mentre quando un valore è vissuto non si sente il bisogno di parlarne, poiché si vedono già gli effetti. Le Costituzioni dell’Ordine dei Servi presentano diversi passaggi in cui si espone il valore della comunione e il modo di viverla; basterebbe riprendere le Costituzioni, ma per renderle attuabili bisogna andare alla fonte, che è il Vangelo di Gesù e alla luce della sua parola comprendere cosa significa creare comunione e viverla in modo fraterno.

Un grande equivoco da superare anche quando si tratta il tema della comunione è quello di intenderla come omogeneità, l’essere conformi a un pensiero unico prestabilito e applicare le sue modalità in maniera uniforme, nel senso che tutti la pensino allo stesso modo e agiscano in maniera uguale. Ora tale idea di comunione sembra impossibile da raggiungere e quando si cercano le cause di tale disagio è solito alludere all’episodio biblico di Babele (Gn 11,1-9), visto come qualcosa di estremamente negativo; tanto che il termine «Babele» è passato ad essere sinonimo di «confusione», seppur in ebraico il verbo che si applica a quel nome ha il significato di «mischiare», quale effetto che il Signore fece di «mischiare» le labbra/ lingue di tutta la terra. Nei vocabolari biblici l’episodio di Babele si interpreta come esempio di arroganza, e il racconto normalmente si interpreta come il castigo a quelli che tentano l’assalto del cielo mediante una torre (ziggurat), quale macchina di assedio a Dio. I cospiratori vengono dispersi e l’unità della loro lingua distrutta.1

Si può fare una lettura diversa del testo biblico su Babele e comprendere in modo più corretto il suo significato? Bisogna considerare Babele come l’opposto della Pentecoste?

Nella festa di Pentecoste del 28/5/2012 il papa Benedetto XVI affermava che «La Pentecoste è la festa dell’unione, della comprensione e della comunione umana e si contrappone a Babele, dove l’uomo vuole fare a meno di Dio, diventando sempre meno capace di amare e, dunque, sempre meno uomo». Secondo Ratzinger  il problema di Babele è perdere la capacità di accordarsi, di capirsi e di operare insieme, ma è di questo di cui parla il testo biblico?.. La Pentecoste invece presenta il fatto dell’unità come dono dello Spirito; il papa emerito riprendeva il significato della Pentecoste quale capacità «nuova» di comunicare e, quindi, di trasformazione.

Non è che con la Pentecoste si siano superate le divisioni e le estraneità, anche all’interno delle chiese stesse, bensì si è manifestata la possibilità di unità e di comprensione. Pentecoste quindi non come un punto di partenza ma di arrivo; non si tratta di guardare con nostalgia alla Pentecoste di 2000 anni fa, con invidia dei primi discepoli ma di porsi nello stesso atteggiamento di apertura e di accoglienza dello Spirito per poter costruire una comunione salda, fraterna, superando progressivamente ogni forma di divisione.

Quindi Babele e Pentecoste, non più in aperta contrapposizione, ma quale tappe di un processo nella storia in cui si cammina verso un modo di comunione dove la diversità e la ricchezza di ogni cultura e gruppo umano (società multietnica e multiculturale) siano garantite. In entrambi episodi biblici, immagine di ciò che nella realtà umana accade ed è constatabile, si percepisce l’azione di Dio a favore dell’essere umano. In questo senso Babele e Pentecoste hanno un punto in comune: Dio non lascia mai l’essere umano in preda ai suoi limiti, ma si fa presente e interviene in modo che lo sviluppo umano prosegua il suo corso verso il suo traguardo di pienezza.

*L’episodio di Babele (Gn 11,1-9)

Nella Genesi l’episodio di Babele è collocato tra l’alleanza che Dio stabilisce con Noè, dopo il diluvio, e dopo avere benedetto lui e suoi figli: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite tutta la terra» (Gn 9,1-1), e la vocazione di Abramo, con la benedizione divina: «Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nomee diventerai una benedizione» (Gn 12,2). Due grandi storie e due grandi patriarchi, e in mezzo ad esse, quale parentesi strana, l’episodio breve di Babele:

Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo  dunque  e        confondiamo       la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.

Il racconto inizia ricordando come la terra, in passato, avesse una sola lingua e come una emigrazione dall’Oriente portò un gruppo di uomini nella pianura di Sennaar (Mesopotamia), che si stabilirono e decisero di costruire una città e una torre e di farsi così un nome per non disperdersi su tutta la terra. L’intenzione era quella di affermarsi come gruppo, servendosi del fatto dell’uniformità linguistica, ed essere riconosciuti da tutti tramite la loro potenza (fare mattoni / cuocerli / costruire città e torre / toccare il cielo).

All’intenzione  degli  uomini  di  voler  salire  in  alto,  Dio  decide  di «scendere» per vedere sia la città sia la torre con la quale poter toccare il cielo. L’azione di scendere (ripetuta per due volte) dimostra una volontà di rendersi vicino agli uomini (come ha già dimostrato mediante l’alleanza con Noè e poi con Abramo). Non un Dio risentito o geloso che interviene per bloccare e punire i progetti umani, ma un Dio che abbatte le barriere, che risparmia agli uomini sforzi inutili (costruire la torre) e che cerca di dissuaderli dei pericoli a cui vanno incontro (toccare il cielo / farsi un nome). Per cui il confondere / mischiare la loro lingua altro non è che l’aiuto per uscire da una situazione che impedisce la costruzione di una realtà veramente umana.     Abbandonare     progetti     «totalitari»     /     «egemonici»  / «omologanti» dove il pensiero unico (una sola lingua) domina la vita del gruppo e si oppone ad ogni forma di diversità e di dissenso, rende possibile lo sviluppo umano e la crescita salutare della società.

Alla povertà di una sola lingua e al pericolo di bloccare la ricchezza e la potenzialità dell’espressione umana, Dio interviene con la diversità delle lingue e costringe all’essere umano di imparare / accogliere l’altro per capirsi. Non è possibile la comprensione tra le persone se non mediante l’accoglienza dell’altro e la volontà di imparare gli uni dagli altri.2.

Dopo il «confondere / mischiare» le lingue, segue la dispersione, come Dio aveva già proposto a Noé, di crescere e di riempire tutta la terra, lo sviluppo umano avviene cosi, mettendosi in cammino e incontrando gli altri, non costruendo torri per salire in alto dove non vi abita nessuno!

Come afferma il noto filosofo trentino M. Farina: «Un Dio amante della diversità, della molteplicità, della ricchezza di esperienza, legata alle diverse culture, razze, tradizioni, perfino alle diverse forme dell’invocazione con cui gli uomini si rivolgono a lui: questa è l’immagine che si può estrapolare dal mitico racconto della torre di Babele ».3

* L’ambizione di potere e l’impossibilità di capire la Parola

L’ostacolo ad essere testimoni della buona notizia del Regno e a creare dialogo / comunione con tutti è presentato nel vangelo di Marco nell’ambizione di potere e che si esprime nel voler «essere il più grande» (Mc 9,30-37). L’immagine della torre alta da costruire «per toccare il cielo» e «per farsi un nome», come ricordava l’episodio di Babele, era già la premessa a quella difficoltà di poter comunicare e di avere rapporti solidali con gli altri. I discepoli discutono su chi sia il  più grande, la volontà di auto-affermarsi nutre la vana illusione di Babele. Gesù mette in guardia i suoi discepoli contro tale tentazione, come ricorda l’episodio evangelico di Mc 9,31-37:

Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Istruiva infatti i suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà». Essi però non comprendevano queste parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni. Giunsero intanto a Cafarnao. E quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discorrendo lungo la via?». Ed essi tacevano. Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande. Allora, sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: «Chi accoglie uno di questi bambini nel  mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

Gesù istruisce i discepoli sul destino che gli attende a Gerusalemme, rivolge loro il secondo annunzio della sua passione, morte e risurrezione. La linea di maturazione e pienezza dell’uomo è l’amore attivo che non esclude nessuno e che lavora a favore della crescita e promozione umana. Gesù cerca di far capire ai suoi discepoli che la morte non è una sconfitta, perché, essendo l’espressione massima dell’amore per l’umanità, non mette fine alla vita ma dà inizio a un’esistenza gloriosa.

Ma l’incomprensione dei discepoli è assoluta, si tratta di un insegnamento che è all’opposto dei loro presupposti. D’altro lato hanno timore di chiedergli spiegazioni, perché intuiscono che esse farebbero crollare le loro aspettative riformiste e nazionaliste. Imbevuti dalla loro ideologia religiosa, i discepoli non sono in grado di accettare il messaggio di Gesù. Costoro vogliono un Messia che, mediante la forza, restauri la gloria d’Israele e ponga fine all’oppressione. Non li entra in testa che l’esistenza di una società nuova e giusta (fase storica del regno di Dio), dove non esista dominio dell’uomo sull’uomo, non può essere opera di un Messia dominatore, ma responsabilità di tutti come uguali (messianismo condiviso). Senza promozione umana di tutti e la responsabilità di tutti non ci sarà una società nuova.

I discepoli non hanno fatto alcun commento alle parole di Gesù, ma hanno tenuto una conversazione alla quale Gesù non ha partecipato. Dalla domanda immediata che Gesù rivolge loro quando arrivano a Cafarnao si intuisce che la questione è abbastanza importante. Il loro silenzio è imbarazzante (sanno che Gesù non avrebbe approvato tale discorso) e somiglia a quello dei farisei della sinagoga, segno della loro cecità (cf. Mc 3,4). Nonostante l’insegnamento di Gesù essi continuano a discutere su chi avesse il rango maggiore. Tacciono perché consapevoli che Gesù è contrario a tali aspirazioni, ma allo stesso tempo evitano il confronto con lui.

L’evangelista informa sul tema della discussione lungo la strada. Gesù aveva chiesto di cosa parlavano… essi invece hanno discusso, dimostrando la loro rivalità e discrepanza. Motivo della discussione è l’ambizione che esiste nel gruppo, i discepoli non credono nell’uguaglianza. Tale ambizione è espressione della non accettazione delle condizioni che Gesù ha appena esposto per chiunque voglia seguirlo. E’ l’ambizione a renderli ciechi / sordi, incapaci di comprendere l’insegnamento precedente.

La casa, figura della comunità, è la dimora stabile di Gesù (sedutosi), ma il fatto che egli deva chiamare i Dodici significa che essi sono lontani da lui; cioè non accettano il destino del Figlio dell’uomo. La chiamata è un invito a avvicinarsi a lui, a cambiare atteggiamento.

Prima di tutto i Dodici devono rinunciare a ogni pretesa di preminenza; nella comunità / casa non è ammissibile che alcuno possa aspirare a un rango più elevato: «il più grande». Gesù si colloca in un’altra ottica, egli propone di essere «il primo» nel senso della vicinanza a lui, e afferma che quel posto lo occupa colui che, rispetto agli altri, si rende l’ultimo e servo, in questo modo tutti possono essere

«primi». Gesù va incontro all’ambizione dimostrata dai discepoli. Egli non ammette il desiderio di rango, pero ammette l’aspirazione a stare vicino a lui. Gesù vuole che tutti siano primi, l’unico primato si fonda sull’amore dimostrato nel servizio umile.

Mentre i discepoli discutono di «gerarchia», Gesù propone come ideale il «farsi l’ultimo di tutti» cioè porsi a livello di quelli che non hanno rango alcuno. Equivale a rinnegare se stesso, ed è una figura con la quale Gesù indica chi non è mosso da alcuna ambizione di preminenza e di prestigio.

Il secondo insegnamento di Gesù è accompagnato da una sua azione: prende un ragazzino, lo mette al centro (della comunità) e lo abbraccia. Il ragazzino è un piccolo servo, colui che lo si chiama per fare delle commissioni., Gesù non ha bisogno di chiamarlo, né deve muoversi per prenderlo, gli sta accanto, è vicino a lui («il primo») ed è il modello di discepolo: colui che è al servizio e a disposizione di tutti («l’ultimo di tutti»). Gesù lo colloca al centro della comunità, come punto di riferimento per i Dodici, che hanno discusso chi fosse il più grande. L’abbraccio è gesto d’affetto e di identificazione. Si capovolgono i valori della società che propone sempre le persone che contano come modello. Per Gesù, invece, il modello sono i servitori, gli ultimi, coloro che realizzano il disegno del Padre, identificandosi con lui e rendendolo presente. Il Dio di Gesù non domina l’uomo, bensì sta al suo servizio.

L’episodio di Pentecoste (Atti 2,1-13):

L’effusione dello Spirito sulla comunità di credenti completa quel processo iniziato con Babele, gli esseri umani continuano a parlare lingue diverse, ma ora si trova presente quella forza che avvia la comunicazione / comprensione reciproca / comunione.

Nel libro degli Atti l’evangelista Luca racconta l’esperienza che la comunità dei credenti ha avuto del dono dello Spirito e della possibilità di stabilire con tutti i popoli una via di dialogo e di comunione.

Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rumore, come all’irrompere di un vento impetuoso, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; Tutti furono pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro di esprimersi. Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei devoti di ogni nazione che è sotto il cielo. Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore dicevano: “Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”. Tutti erano stupiti e perplessi, chiedendosi l’un l’altro: “Che significa questo?”. Altri invece li deridevano e dicevano: “Si sono ubriacati di mosto”.

Luca ambienta l’episodio nel finire del giorno di Pentecoste, quando, cinquanta giorni dopo la Pasqua, i giudei celebravano la festa del dono della   Torah    (festa   delle   Settimane).   E   quel   giorno   stava   per

«compiersi», l’evangelista non è interessato al dato cronologico, bensì teologico: si chiude un’era legata a norme e osservanze in cui gli uomini dovevano ubbidire a Dio e si apre quella tappa definitiva della storia dove lo Spirito viene incontro ad ogni persona per renderla somigliante al Padre. Portando a compimento la Legge e i Profeti, come l’evangelista ha già ricordato nell’episodio della sinagoga di Nazaret («oggi si è compiuta questa Scrittura» v. Lc 4,21), Gesù inaugura la tappa del Regno, ora lo Spirito renderà i discepoli capaci di portare avanti la sua proclamazione e la costruzione di una realtà nuova all’insegna dell’umano.

I discepoli si trovano tutti insieme, e questa sarà l’occasione favorevole per rendere testimonianza del Signore risorto, «quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36), a quanti erano radunati a Gerusalemme con motivo di quella festa. L’esperienza del Signore risorto ha fatto sì che i discepoli comprendano il compimento delle Scritture, le loro menti si sono aperte: «Queste sono le cose che io vi dicevo quando ero ancora con voi: che si dovevano compiere tutte le cose scritte di me nella legge di Mosè, nei profeti e nei Salmi» Allora aprì loro la mente per capire le Scritture (Lc 24,44-45), ed è questo il primo passo per poter accogliere il dono promesso: «Voi siete testimoni di queste cose. Ed ecco io mando su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi, rimanete in questa città, finché siate rivestiti di potenza dall’ alto» (Lc 24,48-49). Solo allora i discepoli si potranno confrontare con i Giudei, la loro comunicazione sarà all’insegna della conversione per il perdono dei peccati, un perdono che va predicato a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme (Lc 24,47). La testimonianza dei discepoli inizierà e sarà resa sotto la guida dello Spirito, e non più della Legge. Luca introduce la prima missione dei discepoli / testimoni di Pentecoste. Al popolo emigrato dall’oriente che, secondo l’episodio di Babele, si era insediato nel territorio di Senaar, ora segue una realtà nuova che non si concentra in uno spazio determinato ma si aprirà alla missione «fino ai confini della terra».

Come una raffica di vento impetuoso entra in una casa e rovescia ogni cosa, così Luca descrive come lo Spirito, quale soffio vitale abbatte le resistenze dei discepoli.

Per descrivere la presenza / discesa dello Spirito (come Dio era disceso dal cielo per vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo) Luca usa l’immagine del suono / rumore legata al fattore del vento, che appartiene all’ambito dell’ascolto, per rendere percettibile la ricezione dello Spirito.

Tutta la casa / comunità dove si trovavano riuniti i discepoli fu riempita di quella energia, e tutti partecipano di quella esperienza che li renderà in grado di affrontare la missione. Riempiendo tutta la casa, lo Spirito conferisce unità a tutto il gruppo dei discepoli.

La seconda immagine usata dall’evangelista, per descrivere lo Spirito Santo, è legata all’idea di calore / energia, e appartiene all’ambito della visione. Le «lingue come di fuoco» che si posano su ciascuno dei discepoli hanno una funzione di iniziazione, abiliteranno i discepoli a parlare in altre lingue.

Mentre nell’episodio di Babele gli uomini usarono il fuoco per cuocere uno a uno i mattoni con i quali costruire la torre, ora lo Spirito discende sul gruppo dei discepoli come una lingua di fuoco che apre al confronto e rende fattibile la comunicazione fra le persone.

Quanti erano presenti nella casa (che si era riempita del vento impetuoso) furono pieni di Spirito Santo, potenza dall’alto che allontana da ogni forma di male, e iniziano a parlare in altre lingue e ciascuno secondo il proprio modo di esprimersi.

Lo Spirito è santo, come il Padre è santo, cioè separato completamente dal male, dal peccato, dalla morte. La qualifica di santo non separa lo Spirito dalla realtà umana ma al contrario lo fa intervenire in essa. Infatti l’essere santo indica l’attività del Padre: è colui che santifica, mediante lo Spirito, cioè attrae nella sua sfera separando chi lo accoglie dal male e dal peccato.

A Babele Dio aveva «confuso / mischiato» la lingua degli uomini e ciò rese incomprensibile il loro parlare, ora si supera quell’ostacolo dando ai discepoli la capacità di esprimersi in lingue diverse.

I Giudei, giunti dalla diaspora a Gerusalemme con motivo della festa della Pentecoste (Settimane), rimangono confusi (come erano rimasti confusi gli uomini di Babele) dal momento che sentono parlare i discepoli nelle loro lingue. Avvenuto quel fragore (lit.: «la voce»), la folla si raduna e prova un senso di confusione poiché sentiva il parlare dei discepoli nella propria lingua.

Alla confusione che i Giudei provano, nel vedere i discepoli parlare le loro lingue, si aggiunge lo stupore nel constatare che essi sono dei Galilei (popolazione che non godeva di buon nome). I pregiudizi razziali sono degli ostacoli peggiori per accogliere e comprendere l’altro; il gruppo dei discepoli, invece, dimostra la capacità di potersi esprimere in modo da farsi comprendere da tutti.

Per la prima volta i discepoli mettono i Giudei a confronto diretto con la loro predicazione. Luca presenta un traguardo raggiunto, che si ottiene mediante il dono e la guida dello Spirito e che consiste nell’usare il linguaggio della buona notizia, centrato sulla grazia e l’amore incondizionato del Padre.

L’evangelista elenca quindici nazioni o popoli, a partire da Oriente verso Occidente. Anche nell’episodio di Babele gli uomini emigrarono dall’Oriente verso il paese di Sennaar, ma ora la lingua non è più una sola, bensì numerose; il dono della Pentecoste corrobora come la diversità (lingue / etnie / tradizioni) è una ricchezza, dimostrando come l’intesa, anche tra coloro che non partecipano della stessa esperienza, è possibile.

Le grandi opere di Dio che si sentono annunziare riguardano la buona notizia di Gesù che abbatte ogni barriera e divisione, rendendo possibile il contatto e la collaborazione tra i popoli. Non si tratta più di possedere un unico linguaggio per costruire una città forte e una torre che tocchi il cielo, ma di aprirsi alla diversità e ricchezza di ogni realtà umana per costruire la società del Regno.

Non si tratta di un idioma universale, a causare lo stupore della folla, ma è quell’ardore / passione lingue come di fuoco») nel voler intendersi a rendere vicine le lingue di ciascun popolo. Animati dallo Spirito, che è la stessa capacità di amare del Padre, i discepoli possono stabilire un dialogo e comunione con tutti i popoli. L’amore che si fa servizio non si può mai imporre, ma solo offrire e ciò comporta abbandonare ogni atteggiamento di superiorità o di dominio nei confronti degli altri. In questo modo nessuno può essere spogliato della sua identità e della sua ricchezza culturale che gli è propria.

Non tutti i presenti accettano la testimonianza dei discepoli che possono esprimersi in lingue diverse usando il registro dell’amore incondizionato, alcuni liquidano l’evento considerando i discepoli di gente ubriaca.

*Da Babele a Pentecoste:

Dall’insegnamento della Scrittura si impara che lo scopo dell’essere umano non è salire su una torre per dominare, ma abitare una casa dove si crea comunione. Per questo Gesù, secondo il vangelo di Giovanni, rivolge al Padre la sua preghiera di mantenere uniti i suoi di fronte al mondo: essere uno significa vivere la condizione divina.

Nella lunga preghiera che, secondo l’evangelista Giovanni, Gesù tiene prima di essere arrestato e ucciso (anche se i verbi che indicano pregare non compaiono mai), Gesù espone in che modo si può vivere l’unità / comunione (cf. Gv 17); la testimonianza che egli dà ai suoi discepoli di perfetta comunione con il Padre deve servire loro di modello per raggiungere tale traguardo. Nella preghiera di Gesù si chiederà l’unità (v. 22) tra i discepoli, la protezione dal maligno (v. 15) e l’accesso alla condizione divina (v. 24). Il tema di tutta la preghiera è l’essere uno, come lo sono il Padre e Gesù, il che non riguarda solo la necessità dell’unità dei discepoli con il loro Signore, ma la condizione divina alla quale sono chiamati. Uno è un termine che nell’ebraismo era sostitutivo del nome di Dio, l’unico, l’uno, il solo; (“Il Signore è uno… “Uno il suo nome”, Dt 6,4; Zc 14,9). La comunità dei credenti è chiamata ad inserirsi nella comunità divina ed esserne la manifestazione terrestre, come prima lo è stato Gesù. La comunità è chiamata ad essere la presenza di Dio sulla terra. Un Dio che si manifesta attraverso l’amore e il servizio non può in alcuna maniera essere rappresentato da chi esercita potere e dominio.

La missione dei discepoli ha lo stesso fondamento e lo stesso scopo di quella di Gesù: la manifestazione al mondo del volto del Padre, per offrire una possibilità di salvezza: “Dio non ha inviato il figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17).

L’invio nel mondo non è finalizzato alla proposta di una dottrina ma al dono della propria vita. Solo nel dono di sé si libera tutta quella potenza di vita e di amore che ogni uomo racchiude in se stesso. Per Gesù non c’è più una dottrina da custodire e trasmettere inalterata, ma un’esperienza di vita da comunicare. La dottrina può essere controllata, la vita no!

Affinché i discepoli possano testimoniare di fronte al mondo questa esperienza di vita legata alla buona notizia del Regno, Gesù si rivolge al Padre «perché tutti siano uno, come tu, Padre, in me e io in te, affinché anch’essi siano in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). L’unità della comunità è condizione per l’unione con il Padre e Gesù, ed essa si rende visibile solo dove esiste una pratica dell’amore vicendevole.

Il disegno del padre sulla comunità è che tutti sono chiamati a diventare uno, ossia essere il santuario dal quale si irradia la presenza della gloria di Dio. Il motivo di questa pressante richiesta è che il mondo giunga a credere in Gesù e accogliere così una proposta di vita: l’esistenza di una comunità dove si possa toccare con mano la libertà, l’amore, l’allegria, frutto della dedizione disinteressata agli altri, convincerà l’umanità della verità di Gesù. Se l’unione nella comunità è la condizione indispensabile affinché il mondo creda, la divisione è d’impedimento e ostacola la fede in Gesù.

Il mondo giungerà a credere non per la proposta di una nuova dottrina, ma per la forza di una nuova potenza d’amore mai prima sperimentata, quella di uomini con la condizione divina. Mentre la dottrina divide, l’amore unisce.

Per questo Gesù conferma per i suoi discepoli il dono della sua gloria. La gloria che il Padre ha donato a Gesù è il suo Spirito, cioè la sua stessa forza e capacità d’amore che si rendono visibili, e Gesù, la cui missione è battezzare in Spirito santo (cf. Gv 1,33) questa forza la trasmette ai suoi, al fine di realizzare tra i suoi discepoli la stessa unità d’amore esistente tra Gesù e il Padre: la comunità, unita nell’amore è la manifestazione visibile sulla terra della presenza di Dio, unico santuario dal quale si irradia la sua gloria.

La gloria di Dio non si manifesta attraverso spettacolari manifestazioni della potenza, ma nel portare molto frutto (“In questo è glorificato il Padre mio…” Gv 15,8), attraverso un amore che si fa servizio e si rivolge a tutti, anche a chi non lo merita. Non è riservata a pochi eletti, e in particolari determinate condizioni (Es 34,18-22; Lv 16,2; Nm 4,20) ma è una possibilità per tutti. A maggior gloria di Dio è la formula con la quale si giustificano opere magnificenti, grandiose, destinate a durare nella mentalità dei costruttori, per l’eternità. In realtà non vengono erette per la gloria di Dio, ma a gloria dei potenti che ci tengono ad essere «il più grande».

La perfezione nell’essere uno (Gv 17,23), ripetuta per tre volte (vv. 21.22.23), è l’unico argomento capace di convincere l’umanità. La fede può nascere solo dall’esperienza di questo amore che comunica vita. Il Padre ama i suoi figli come ha amato Gesù, comunicando loro lo stesso Spirito, la sua capacità d’amore. Dio non assorbe le energie degli uomini, ma comunica a essi le sue. È un Dio che chiede di essere accolto per fondersi con l’uomo e dilatare la sue capacità d’amore (Gv 14,23).

A Babele gli uomini ricevettero «il dono» della diversità delle lingue, nella Pentecoste questo dono raggiunge il suo compimento quando la comunicazione tra gli esseri umani è possibile proprio grazie a tale diversità, segno di rispetto dell’altro e di accoglienza reciproca. «Essere uno» nella diversità significa che ogni essere umano si sente accolto per quello che è, immagine del Creatore, e manifesta la sua somiglianza con Lui quando, rispettando la dignità dell’altro, diventa manifestazione del suo amore.

1 Questo luogo nelle Scritture porta il nome di Babele, che la tradizione successiva descriverà come una città dove regna un «balbettare blasfemo» , un luogo ostile e contrario alla volontà divina (Atlante della Bibbia / Touring Editore, Milano 2012, pp. 100-101).

2 Erri de Luca: Una nuvola per tappeto. Feltrinelli 1992, p. 14

3 Farina: «Da Babele a Pentecoste» Il Margine 4 (1993) pp.27-32 / p. 29.

A cura di Ricardo Pérez Márquez

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