Enzo Bianchi – Facciamoci prossimo di chi soffre e gridiamo davanti a Dio

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Da alcune settimane abbiamo lentamente acquisito la consapevolezza dell’epidemia che continua a diffondersi, colpendo vecchi e giovani, forti e deboli, abili e disabili, potenti e poveri. Si è dunque insinuata in noi una paura che a volte diventa angoscia; una paura che dobbiamo dominare, vivendola come un timore. E questo senza perdere il gusto della vita e soprattutto la speranza di poter attraversare anche questa emergenza, lottando efficacemente e vincendo questo virus, nemico invisibile e sconosciuto, estraneo all’orizzonte delle nostre vite nelle società dell’occidente.

Siamo stati sorpresi e facciamo fatica ad adattarci alle regole prescritte dall’autorità civile al fine di preservare il bene comune per eccellenza: la salute, la vita. La nostra sofferenza, quella che sperimentiamo tutti, anche se non colpiti dal virus, si è accresciuta con il passare dei giorni: una sofferenza, una fatica diversa per ogni situazione. Fatica di chi è solo, e sono molti quelli che vivono questa condizione, soprattutto nelle città; fatica a stare in casa, a non vivere come si era abituati, a non avere quei contatti che rendevano possibile e sopportabile la solitudine; fatica di chi è anziano e facilmente cade in preda a incubi e fantasmi; fatica di chi è disabile e spesso non riesce a comprendere tutto ciò che accade intorno a sé, non riesce a dire il suo dolore.

Vi è poi – e questo è per molti il pensiero più straziante – la sofferenza dei contagiati, che si sentono strappati agli affetti, alla famiglia, alla casa, e costretti a un itinerario di isolamento; un itinerario sovente di morte, senza la possibilità di andarsene con una mano nella mano dei propri cari, con la consolazione dei sacramenti, con il saluto di quanti hanno avuto un significato durante la propria vita. Questa è la sofferenza che non può essere taciuta ed è anche una prova per la nostra qualità umana e per la qualità della nostra convivenza.

Credenti e non credenti, cristiani e non cristiani, “siamo tutti sulla stessa barca”, come recita la sapienza contadina e come ha ricordato il nostro intercessore, papa Francesco, a partire dal brano evangelico della tempesta sedata. Solo insieme possiamo lodare, solo insieme possiamo salvarci. Ecco dunque una chiamata proveniente da questa emergenza, una domanda che forse comprendiamo oggi meglio di ieri: dobbiamo “fare comunità”, dobbiamo sentirci fratelli e sorelle in umanità, solidali e responsabili gli uni degli altri. Nell’ora della prova siamo invitati a interrogarci e di conseguenza a impegnarci nell’attenzione, nell’ascolto e nella cura gli uni degli altri.

Senza mai dimenticare che questa faticosa situazione che ci ha segregati in casa, separandoci dagli altri, contiene anche – se li vogliamo ascoltare – insegnamenti urgenti e preziosi sul nostro rapporto con il tempo, con i giorni della nostra vita. Abitualmente il tempo passa velocemente e ci divora, ci lascia “senza tempo”: ma ora? Ci chiede di abitarlo con consapevolezza e intelligenza, non ammazzandolo, non riempiendolo davanti alla tv o nella febbre del web, ma stando in silenzio, pensando con libertà e sperimentando “il dolce far niente” che può essere situazione feconda per abitare con se stessi e ascoltare il silenzio. Pascal ammonisce: “La grande disgrazia delle persone deriva dall’incapacità di stare senza far nulla in una stanza”. Ecco dunque un’occasione di fecondità interiore!

E a noi cristiani in quest’ora spetta più che mai la preghiera di intercessione, questo stare davanti al Signore, invocando la forza del suo Spirito santo affinché possiamo accrescere in noi la carità. Ed essendo da lui consolati, possiamo consolare chi si trova nella sofferenza e nel bisogno. Intercedere significa “fare un passo tra”, farsi prossimo di chi soffre e gridare davanti a Dio, nella certezza che egli risponde sempre al grido del sofferente. Il nostro Dio è colui che si è rivelato quando ha udito il grido dei figli di Israele oppressi in Egitto, è il Dio che ascolta la fame dei poveri e la solitudine della vedova e dell’orfano, è il Dio che protegge l’immigrato. In Gesù Cristo il nostro Dio si è manifestato in modo definitivo come colui che guarisce, ridà la vita, libera da ogni male.

Questa è la nostra fede! E se viviamo con questa fede, conosceremo anche la speranza e diventeremo capaci di vera, gratuita e intelligente carità. Non lasciamo nessuno solo, non permettiamo che qualcuno si senta abbandonato. E ciò che facciamo a una sola di queste persone bisognose, lo faremo a tutta l’umanità.

Articolo pubblicato su Famiglia Cristiana – Aprile 2020 di ENZO BIANCHI

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