card. Gianfranco Ravasi – Una vedova coraggiosa infuriata con il giudice

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Nel nostro ormai lungo percorso attraverso le pagine del terzo Vangelo alla ricerca delle molte figure femminili che vi si affacciano, giungiamo a una parabola che è esclusiva di Luca (18,1-8) e che ha per protagonista una vedova coraggiosa che osa affrontare un magistrato inefficiente e corrotto. Sul suo tavolo si accumulavano le pratiche riguardanti i casi della povera gente, mentre egli sbrigava solo quelli che gli assicuravano successo e vantaggi. Come poteva, allora, interessargli la vicenda di questa vedova povera che si ostinava a sporgere denuncia per un torto subito?

Infatti egli, privo di scrupoli morali e totalmente indifferente in materia religiosa, continuava a ignorare quella fastidiosa donnetta. Essa, però, non demordeva e lo assediava senza tregua. Per liberarsi da questa seccatura, alla fine aveva deciso: «Anche se non temo Dio e non ho riguardo per nessuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché alla fine non venga a spaccarmi la faccia» (18,5). Abbiamo conservato in finale la brutale espressione greca del Vangelo, di solito edulcorata in un più attenuato «perché non venga continuamente a importunarmi»: nell’originale greco, infatti, si ha il verbo del “colpire sotto l’occhio” (hypopiázein), una mossa anche allora proibita nel pugilato.

Vogliamo, però, soffermarci sull’applicazione un po’ sconcertante della parabola che il Signore fa nella finale: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo?» (18,6-7). Gesù sta parlando della «necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (18,1), cioè della fedeltà costante nell’orazione. Attraverso la parabola egli introduce una comparazione a fortiori: se un giudice iniquo cede di fronte alle insistenze e concede un verdetto onesto, a maggior ragione Dio, che è invece un giudice solerte e giusto, non lascerà senza risposta i suoi fedeli che lo invocano incessantemente. C’è, però, un’aggiunta significativa: «Li farà forse aspettare a lungo?» (18,7).

C’è in questa domanda un tema sotteso che travagliava la comunità cristiana delle origini. Essa s’interrogava su una questione che, in forma diversa, sentiamo ripetere spesso: quando Dio interverrà finalmente a giudicare il male e l’ingiustizia e a salvare i giusti umiliati? Allora si impostava questa domanda in relazione alla parousía, cioè alla venuta definitiva di Cristo a suggellare la storia umana con il suo giudizio. Quell’“aspettare a lungo” riflžetteva il sospetto che l’attesa si dovesse protrarre indefinitamente.

Già san Pietro nella sua Seconda Lettera aveva presente il dubbio di molti cristiani al riguardo e così replicava: «Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza» (3,9). Lo stesso interrogativo è lanciato verso Dio dalle vittime della storia nell’Apocalisse: «Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?» (6,10). Anche Luca risponde a questa tensione, cercando di placarla. Suggerisce, infatti, accanto alla fiducia nell’intervento finale del Signore – per altro affermata anche da un sapiente biblico come il Siracide: «Il Signore non trascura la supplica dell’orfano né la vedova quando si sfoga nel suo lamento» (35,16-17) – la necessità della pazienza e della costanza nel lungo periodo dell’attesa, cioè nell’arco della storia.

Fonte: Famiglia Cristiana