Card. Gianfranco Ravasi – Un “prima” e un “poi”

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Il calendario liturgico assegna al 25 gennaio la festa della Conversione di san Paolo. La celebrazione era sorta in Gallia nell’VIII secolo in occasione della traslazione di alcune reliquie dell’Apostolo ed era entrata nella liturgia romana solo nel X secolo. Ciò che accadde in un giorno imprecisato tra il 33 e il 35 d.C. è nella memoria di tutti secondo una rappresentazione che comprende, però, infiltrazioni fantastiche. È quello che si scopre, per esempio, nella tela del Caravaggio presente nella chiesa romana di Santa Maria del Popolo: un enorme cavallo occhieggia un Paolo disarcionato e accecato.

In realtà, la descrizione di quella celebre epifania di Cristo risorto, che segnò una svolta radicale nella vita di Saulo e che fu la sua chiamata alla fede e alla vocazione di apostolo, non comprende quella scenografia equestre in nessuno dei tre racconti che ci ha lasciato san Luca nei capitoli 9, 22 e 26 degli Atti degli Apostoli. Eccone il succo nel primo di questi resoconti: «Mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Rispose: Chi sei, o Signore? E la voce: Sono quel Gesù che tu perseguiti!» (9,3-5).

Paolo ricorda in prima persona questa sua vocazione nella sintesi che fa della sua autobiografia davanti al re Agrippa, ospite del governatore romano Festo nella sua residenza di Cesarea Marittima. Là risiede anche l’Apostolo in attesa di essere trasferito sotto scorta davanti alla suprema Cassazione imperiale di Roma, a cui si è appellato come cittadino romano (Atti 26,12-18). Curiosamente nelle sue lettere egli evoca quel ribaltamento della sua vita solo attraverso tre verbi, due di illuminazione-rivelazione («Cristo è apparso anche a me… Dio si degnò di rivelarmi suo Figlio») e uno di lotta («Sono stato afferrato da Cristo»).

Quest’ultimo verbo, nell’originale greco, suppone il gesto di una mano che impugna dal basso verso l’alto una spada. Ebbene, Michelangelo, ormai vecchio, rappresenta nella Cappella Paolina in Vaticano proprio quell’atto: verso un Paolo accecato e accasciato a terra si protende in un cono di luce la mano divina che vuole raggiungerlo per afferrarlo e condurlo verso l’alto. Quell’evento diventa, così, discriminante: Paolo usa non di rado il ricorso per descrivere la sua storia personale a un “prima” e a un “poi” che sono separati dal “taglio” della via di Damasco.

Dal persecutore Saulo, fariseo fanatico, nascerà l’apostolo Paolo, pronto a confessare che «il suo vivere è Cristo». Ogni vera vocazione ricalca questa antitesi tra un “prima” e un “poi”: basti solo pensare al mandriano Amos che diventa profeta, o al contadino Eliseo che è trasformato in erede di Elia, o ai pescatori del Lago di Galilea destinati a essere discepoli.

La “via di Damasco” è divenuta ormai un simbolo universale per definire la svolta esistenziale e spirituale di ogni vocazione o conversione, anche quelle fallite. Il vero spirito di quell’evento è, invece, messo in luce da un grandioso oratorio, Paulus, che il musicista Felix Mendelssohn-Bartholdy ha composto e fatto eseguire per la prima volta il 22 maggio 1836, con ben 356 coristi e 160 strumentisti. In quell’opera, il “prima” della vocazione cristiana, cioè l’ebreo Saulo, e il “poi” col Paolo apostolo sono interpretati dalle voci di due bassi diversi, quasi a segnare due vite e due storie diverse.

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