Card. Gianfranco Ravasi – Ultima conferma alla vocazione di Pietro

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La solennità dei santi Pietro e Paolo, che segna la prossima settimana, ci invita a fissare lo sguardo sul volto di colui che convenzionalmente e un po’ enfaticamente è detto “il principe degli apostoli”. Certo è che nelle liste evangeliche dei Dodici egli è sempre il primo perché a lui Cristo assegna la missione di essere la pietra sulla quale è edificata la Chiesa (Matteo 16,18). Sappiamo, inoltre, che il nome Pietro ricevuto da Gesù proprio per questa sua funzione, in aramaico Kefa, in sostituzione del nativo Simone, risuona nel Nuovo Testamento ben 154 volte (2 volte, invece, egli è citato come Simone e 9 come Kefa).

La sua prima vocazione con il fratello Andrea lungo le rive del lago di Galilea è stata già da noi presentata (Matteo 4,18-22). Ora vorremmo evocare la sua seconda chiamata che ci viene narrata in un brano aggiunto in appendice al quarto Vangelo, nel capitolo 21. Gli apostoli sono tornati, dopo la morte di Gesù, alla loro antica professione di pescatori e il Risorto si presenta proprio sul loro luogo di lavoro.

Alle spalle di Pietro c’è il ricordo amaro personale del suo triplice tradimento rinnegando il suo Maestro, prima, davanti a una portinaia nel palazzo del sommo sacerdote e, poi, con alcuni che sostavano nel cortile dello stesso edificio e, infine, con un parente di quel Malco a cui proprio Pietro aveva mozzato l’orecchio nella concitata sera dell’arresto di Gesù (Giovanni 18,17.25- 27). Ora Cristo, investendolo nuovamente della sua missione di pastore, per altrettante volte esige da lui una professione d’amore, destinata quasi a cancellare quel triplice rinnegamento.

È, quindi, una nuova vocazione che nel testo greco del quarto Vangelo è curiosamente espressa con una variazione inattesa di vocaboli, una mutazione difficile da rendere in traduzione e da spiegare, tant’è vero che ci sono varie interpretazioni, anche se forse si tratta solo di un’alternanza stilistica. Le frasi reiterate tre volte sono sostanzialmente queste due: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?» e «Pasci le mie pecore». Ora, i termini usati sono, però, differenti secondo le varie tappe del dialogo (21,15-19).

Si ha, infatti, «amare» e «voler bene», «pascolare» e «pascere», «agnelli » e «pecore». Qualunque sia il valore di queste variazioni, certa è l’investitura solenne dell’apostolo: la triplice ripetizione, oltre a elidere il triplice tradimento, secondo l’uso semitico avalla un impegno in modo irrevocabile. È il suggello pieno alla vocazione di Pietro tant’è vero che, alla fine, Gesù ripete il verbo della chiamata: «Seguimi».

Le vocazioni, perciò, possono avere percorsi lineari e deviazioni, sentieri coraggiosi di altura e cadute rovinose, giorni luminosi e notti tempestose. Tra l’altro, in quello stesso momento Cristo fa balenare al suo discepolo anche il suo destino ultimo: «Quando sarai vecchio stenderai le tue mani e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi. Questo disse Gesù per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio» (21,18-19). Lo «stendere le mani» quasi a essere portato sulla croce, come intenderà la tradizione posteriore, è forse un’allusione alla morte sacrificale dell’apostolo che ricalcherà quella del suo Signore. Pietro dovrà, allora, ricordare le parole pronunciate da Gesù nel Cenacolo nell’ultima sera della sua vita terrena: «Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Giovanni 15,20).

Articolo pubblicato su Famiglia Cristiana