Card. Gianfranco Ravasi – Nell’oscurità una lotta e un nome nuovo

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In questo nostro viaggio all’interno delle pagine bibliche alla ricerca di storie di vocazione abbiamo sottolineato che spesso la chiamata di Dio è come una spada che taglia il passato e proietta verso un futuro anche ignoto. Ora, si sa che nella Bibbia il nome di una persona non è solo un segno d’identità; è soprattutto la definizione di una missione o di una vicenda. La vocazione, quindi, cambiando il nome, può delineare un mutamento del destino e della funzione del chiamato.

È il caso che ora presentiamo. Siamo introdotti in una notte, sulle rive del torrente Jabbok (“blu”), un affluente del Giordano, ove è accampato il clan di Giacobbe, il figlio di Isacco e nipote di Abramo. Egli è già apparso in scena più volte, talora in maniera non esemplare come quando aveva con un inganno sottratto la primogenitura e i relativi diritti ereditari a suo fratello Esaù; altre volte, invece, era stato destinatario di una particolare benedizione divina, come nella visione della scala percorsa da angeli (Genesi 28,10-22).

Questa volta, però, egli diventa protagonista di un evento sconcertante: «Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora» (si legga tutto il racconto in Genesi 32,23-33). Quell’essere misterioso è Dio stesso, nonostante l’identificazione con un angelo da parte della tradizione successiva, tant’è vero che Giacobbe alla fine confesserà: «Ho visto Dio faccia a faccia», e denominerà quel luogo Penuel, cioè “volto di Dio”. Il patriarca, pur sostenendo il confronto con Dio, esce da quella lotta zoppicante all’articolazione del femore.

BENEDIZIONE DIVINA. Ma il fulcro del racconto è in queste parole divine: «Non ti chiamerai più Giacobbe ma Israele perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto! Giacobbe gli chiese: “Dimmi il tuo nome, ti prego!”. Rispose: “Perché mi chiedi il nome?” e lo benedisse». Come è evidente, Dio rimane trascendente, nel suo mistero, sconosciuto nel suo nome, cioè nella sua intimità profonda. L’uomo, invece, riceve un nuovo nome, “Israele”, che è interpretato dall’autore sacro in maniera libera come “contendere, combattere con Dio”, sebbene l’etimologia esatta rimanga incerta (“Dio combatte o regna o salva o splende”).

Si comprende, così, quale sia la vocazione di Giacobbe che non è più nel nome antico “il soppiantatore” di suo fratello (così Genesi 25,26 interpretava quel nome), bensì nell’essere il progenitore di un popolo che recherà il suo stesso nome. Potremmo dire che la chiamata divina è come un parto che genera una nuova creatura. Non per nulla la narrazione biblica finisce con l’evocazione dell’apparire di un’alba: «Sorgeva il sole, quando Giacobbe passò Penuel».

Spuntava l’aurora di una nuova era, si apriva un nuovo giorno di salvezza, nasceva una nuova persona dalle ceneri dell’uomo vecchio. Quella lotta notturna segnava una linea di demarcazione non solo nella vita del patriarca ma in quella dell’intera nazione. Protagonista non era più un capo tribale, bensì Israele: la sua vocazione era ormai quella di incarnare in sé il popolo che il Signore si era scelto come suo testimone nel mondo e nella storia.

Articolo pubblicato su Famiglia Cristiana