card. Gianfranco Ravasi – Mosè e la presa della mano di Dio

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«Quando si dà la mano a Dio, egli non lascia tanto facilmente la presa!». Così confessava lo scrittore francese Julien Green, rievocando la sua conversione, nell’opera autobiografica Terra lontana (1966). Qualcosa del genere tremila anni prima avrebbe potuto dire un personaggio capitale nella Bibbia, la cui tormentata vocazione abbiamo riservato per questo mese “sinodale”. È, infatti, Mosè che vorremmo idealmente far parlare per narrare la sua storia di chiamato renitente. Sì, perché colui che sarà la guida di Israele nella marcia verso la terra promessa della libertà, aveva alle spalle un inizio molto esitante e incerto.

Dio non si era lasciato scoraggiare e, pur rispettando i tempi e i ritmi della libertà umana, non aveva mollato la presa su questo ebreo dalle origini prodigiose, dalla strana giovinezza di principe e di perseguitato e dalla vocazione scandita a lungo da un’obiezione, eretta come paravento per evitare la risposta positiva. Come dicevamo, lasceremo la parola a lui, affidandoci alle pagine del libro dell’Esodo.

Ora, è noto che questo testo biblico è simile a un tessuto la cui trama è tracciata con fili dai diversi colori e spessori. Sono le cosiddette “tradizioni” che recano nomi assegnati dagli studiosi: “Jahvista” a causa dell’uso del nome sacro Jahweh; “Elohista” perché Dio è chiamato con il termine più comune ’Elohîm; infine, la “Sacerdotale” perché forse furono i sacerdoti a conservare la memoria della storia ebraica durante l’esilio a Babilonia nel VI sec. a.C. Ascoltiamo, dunque, la voce di Mosè che per tre volte, secondo le diverse narrazioni parallele, cerca di esimersi da una vocazione vissuta come un impegno da incubo.

Ecco la “Tradizione Elohista” con la relazione più netta nel capitolo 3 dell’Esodo. La chiamata: «Dio lo chiamò dal roveto ardente: Mosè, Mosè!… Va’, io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti». L’obiezione di Mosè: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli Israeliti?». La protezione, espressione dell’insistenza divina: «Io sarò con te. Eccoti un segno…».

Passiamo alla “Tradizione Jahvista” negli elementi essenziali, con l’obiezione che domina: «Non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce… Non sono un buon parlatore, non lo sono mai stato… Sono impacciato di bocca e di lingua… Perdona, Signore, manda chi vuoi mandare!». Ma Dio non si rassegna: «Chi ha dato la bocca all’uomo? Non sono forse io, il Signore? Io sarò nella tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire!… Ma poi non vi è forse tuo fratello Aronne? Io so che sa parlare bene… Tu gli parlerai e io sarò con la tua e la sua bocca… Parlerà lui al popolo per te» (si legga Esodo 4,10-17).

Infine, la “Tradizione Sacerdotale”. La chiamata divina: «Va’ e parla al faraone, perché lasci partire dal suo paese gli Israeliti!». L’obiezione di Mosè: «Gli Israeliti non mi ascoltano, come vorrà ascoltarmi il faraone, considerato il fatto che ho le labbra impacciate?» (6,10-12). La figura più alta dell’Antica Alleanza rivela, quindi, la sua incertezza e fragilità. Eppure sarà lui il condottiero, anzi, il mediatore tra Dio e Israele, «l’uomo di fiducia di tutta la mia casa, colui con il quale parlo bocca a bocca, contemplando l’immagine del Signore», pur essendo o forse proprio perché era «un uomo assai umile, più di chiunque altro sulla terra» (Numeri 12,3.7-8).

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