Card. Gianfranco Ravasi – L’aratro, i buoi, la chiamata

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Secondo un’antica tradizione nomadica del Vicino Oriente, quando la madre deve svezzare suo figlio si tinge di nero il seno così che il neonato non vi si attacchi più per poppare il latte. In quel momento il piccino reagisce malamente e detesta sua madre perché gli toglie il facile alimento e il piacere di stare attaccato a lei. Eppure, mai come con quell’atto di distacco, la mamma testimonia il suo amore perché dona al bambino la sua autonomia, il suo impegno personale e la sua responsabilità nella vita. Ci sono, purtroppo, madri che – come si suol dire con una variante d’immagine – non tagliano mai il cordone ombelicale dal loro fi glio, facendone così una creatura chiusa, timorosa, bloccata.

Ebbene, la vocazione è qualcosa di simile: è spesso un taglio netto col passato, con una serie di relazioni e affetti per avviarsi in un’avventura che può contenere incognite e sorprese positive e negative. È il caso del futuro profeta Eliseo. Egli è un contadino benestante e sta arando il suo campo con una squadriglia di dodici buoi. Sul sentiero che corre accanto al suo terreno passa un uomo che devia e gli si avvicina. Si toglie il mantello e glielo getta sulle spalle. Per comprendere questo gesto per noi strano, bisogna sapere che il manto regale e i mantelli delle persone erano considerati il segno distintivo di una persona, della sua funzione e dignità.

Per questo recavano tratti emblematici. Eliseo vede che quel mantello appartiene alla classe dei profeti e comprende di essere stato investito della stessa autorità di quell’uomo: è Elia, il profeta noto in tutto Israele, anche per l’opposizione scatenata contro di lui dal regime repressivo del re Acab e soprattutto dalla sua potente moglie, la principessa fenicia Gezabele. Così Eliseo sa che ormai la sua vita è segnata e davanti a lui si apre una nuova strada che lo distaccherà dal suo clan.

Chiede allora a Elia di poter baciare i suoi genitori e di celebrare con la sua famiglia un pranzo d’addio: «Prese un paio di buoi e li macellò; col legno del loro giogo fece cuocere la carne e la diede alla sua gente perché la mangiasse» (si veda 1Re 19,19-21). Finito il banchetto, salutati i suoi, Eliseo lascia alle spalle il suo passato, gli affetti, la professione e segue colui che sarà il suo maestro e guida, del quale sarà erede e successore, continuandone la missione.

È suggestivo, infatti, che quando Elia in una scena dai contorni apocalittici verrà strappato alla terra e rapito in cielo su un cocchio di fuoco, per incontrare quel Signore che egli aveva servito con coraggio per tutta la vita, Eliseo riceverà «due terzi dello spirito» del suo maestro, cioè l’eredità riservata al primogenito e raccoglierà il mantello che era caduto a Elia (2Re 2,1-15). La vocazione è, quindi, una vera e propria generazione e comprende alla fine una nascita per una missione.

Infatti da quel momento Eliseo continuerà gli atti di Elia e sarà anch’egli una fiaccola di luce per il popolo, consapevole che «lo spirito di Elia si era posato su di lui»; egli, però, lo farà con la sua personalità e autorità. Il racconto di vocazione che abbiamo sopra evocato era ben noto anche a Gesù che lo applica a sé stesso quando chiama i suoi discepoli. Ma lo fa con una radicalità maggiore: «Uno disse a Gesù: Ti seguirò, Signore; prima, però, lascia che mi congedi da quelli di casa mia. Ma Gesù gli rispose: Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto al Regno di Dio» (Luca 9,61-63).

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