Card. Gianfranco Ravasi – Il dono di un cuore che sappia ascoltare

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È notte fonda. Su un’altura in una località denominata Gabaon (che significa appunto “luogo elevato”), all’interno di un santuario è giunto da Gerusalemme, distante circa otto chilometri, il re Salomone, il figlio di Davide. È agli esordi del suo governo e vuole dedicarsi a una specie di ritiro preparatorio, trascorrendo la notte in preghiera. Era quella che veniva detta “incubazione”: secondo la tradizione dell’antico Vicino Oriente, si trascorreva una notte in preghiera, nella convinzione che – quando il sonno avrebbe vinto la resistenza nella veglia o quando l’aurora avrebbe segnato nel cielo la sua prima lama di luce – Dio si sarebbe rivelato al suo fedele.

Ed ecco che il Signore parla in quella oscurità silenziosa attraverso un sogno, che nella Bibbia e in tante culture è il tramite di una comunicazione divina: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». Sboccia, così, un dialogo in cui il re invoca un dono in particolare: «Concedi al tuo servo un cuore docile, perché io sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male» (si legga l’intero racconto in 1Re 3,4-15). Potremmo considerare questa esperienza come la vocazione di colui che diverrà nella Bibbia il sapiente per eccellenza (oltre che il Magnifico, per lo splendore del suo regno).

Fermiamoci brevemente sull’implorazione del re. Egli chiede «un cuore docile», ma l’ebraico originario è più suggestivo: «un cuore che ascolti», una sorta di orecchio dell’anima che raccoglie l’eco della parola trascendente di Dio. Con questa coscienza (il «cuore » nella Bibbia ha questo valore) vigile e aperta al mistero, pronta all’obbedienza (perché nella lingua della Bibbia “ascoltare” è anche “obbedire”), egli potrà avere un duplice dono, una dotazione interiore dal duplice aspetto.

Da un lato c’è il «saper distinguere il bene dal male», una qualità personale fondamentale che rende l’uomo un essere morale. Nella rielaborazione della preghiera di Salomone fatta da un autore giudeo di Alessandria d’Egitto nel libro biblico della Sapienza si afferma che la parola sapiente di Dio «insegna la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza delle quali nulla è più utile agli uomini durante la vita… Essa mi guiderà con prudenza nelle mie azioni» (8,7; 9,11). Sono le quattro virtù cardinali, basi dell’etica.

D’altro lato, c’è però un altro dono, quello del «rendere giustizia al popolo»: è l’impegno verso gli altri, nell’esercizio della carità e della giustizia, fondamentale in un politico ma indispensabile anche nella vita sociale di ogni persona. Io e l’altro: attorno a questi due poli possiamo annodare la vocazione di tutti. Chinarsi in sé stessi, racchiudendosi nel tempio della coscienza; aprirsi sul mondo per stendere la mano al prossimo.

Salomone dialogò anche con le altre sapienze e civiltà. Lo facciamo anche noi riassumendo la duplicità del dono da lui invocato attraverso le immagini di un poeta mistico musulmano, contemporaneo di Dante, Rûmî, vissuto a Konya, l’Iconio di san Paolo, nell’attuale Turchia, autore di un immenso poema spirituale: «Una mano che è sempre aperta o sempre chiusa è una mano storpia. Un uccello che non sa aprire e chiudere le ali non volerà mai». Chiudersi in sé stessi e aprirsi agli altri: ecco l’anima autentica di una vocazione.

Articolo pubblicato su Famiglia Cristiana