Alberto Maggi sui negazionisti di oggi e di ieri

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“Nun me piace!” è il conosciuto tormentone della commedia di Eduardo de Filippo “Natale in casa Cupiello”. L’anziano protagonista, amante delle tradizioni, in occasione del Natale, ha allestito “il più bel presepio di tutti gli altri anni”, e cerca il consenso del figlio Tommasino (Nennillo), un tontolone (“ha avuto la malattia… è nervoso!”), viziato dalla madre. Niente da fare: “Nun me piace!”, è la sua risposta. Inutilmente il padre tenta di fargli notare la bellezza degli angioletti, dei tre re magi, della stella cometa…“Nun me piace!”, è la sua risposta. Questo ragazzo tardo e pigro è la parodia del negazionista, colui che rifiuta di vedere il bello, il buono, e sa rispondere solo ripetendo la stessa solfa e lo stesso slogan: “Nun me piace!”. Non c’è motivo, semplicemente non gli piace. Il personaggio di Tommasino è la caricatura di quelle nullità, che per far notare la loro presenza hanno bisogno di gridare la loro tanto ostinata quanto ottusa contrarietà.

Ma il negazionismo ha radici antiche e già nelle prime pagine della Bibbia si trova il primo negazionista. Nel Libro della Genesi si legge che il Creatore aveva avvertito l’uomo e la donna, da lui creati, di non mangiare “dell’albero della conoscenza del bene e del male”, perché altrimenti sarebbero morti (Gen 2,17). Ed ecco spuntare il primo negazionista della storia, il serpente, che disse alla donna: “Non morirete affatto!” (Gen 3,5), e si sa come poi è andata a finire. E negazionisti spuntano anche al tempo di Noè, “uomo giusto e integro tra i suoi contemporanei” (Gen 6,9). Avvertito da Dio dell’imminente disastro, pensa a mettersi in salvo costruendo un’arca di legno, ma gli altri no, “mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito… e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti” (Mt 24,38).

C’è poi un altro tipo di negazionismo dalle conseguenze drammatiche, perché si fonde con il fanatismo religioso. È il negazionismo che, forte delle sue sacre convinzioni, rifiuta la realtà perché è inammissibile, scomoda o spiacevole, o semplicemente non può essere. Un esempio di questo negazionismo si trova negli scritti di Geremia, dove il profeta avverte il popolo dell’imminente pericolo, rappresentato dall’invasione dei Babilonesi guidati da Nabucodonosor, invitandolo ad abbandonare false certezze: “Non confidate in parole menzognere ripetendo: Questo è il tempio del Signore, il tempio del Signore, il tempio del Signore” (Ger 7,4). Ma il grido d’allarme del profeta non fu ascoltato nonostante l’evidenza dell’approssimarsi della tremenda invasione. Gerusalemme era la città del Dio d’Israele e per questo non poteva essere conquistata. La tradizione religiosa, infatti, credeva che Gerusalemme fosse imprendibile in quanto Dio stesso avrebbe impedito la caduta del luogo che conteneva la sua presenza. Del resto anche il salmista esaltava l’imprendibilità di Gerusalemme, perché “Dio è in mezzo ad essa: non potrà vacillare. Dio la soccorre allo spuntare dell’alba… Il Signore degli eserciti è con noi, nostro baluardo è il Dio di Giacobbe” (Sal 46, 6.8), per poi dover amaramente constatare che “hanno ridotto Gerusalemme in macerie” (Sal 79,1), come già Geremia aveva vanamente profetizzato: “Gerusalemme diventerà un cumulo di rovine” (Ger 26,18).

Ugualmente, secoli dopo, durante l’assedio di Gerusalemme da parte dei Romani, a causare la morte di molti durante l’attacco alla città santa, quando era evidente a tutti che era assurdo resistere alla soperchia forza distruttrice degli invasori, fu proprio “un falso profeta che in quel giorno aveva proclamato agli abitanti della città che il Dio comandava loro di salire al tempio per ricevere i segni della salvezza” (Guerra, VI, 5,2 §285). E vi incontrarono la morte. […]

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