Commento al Vangelo del 6 dicembre 2016 – don Antonello Iapicca

LA FOLLE GIOIA DELLO SPOSO CHE PER SALVARE E PERDONARE LA SPOSA CHE L’HA TRADITO LASCIA OGNI SICUREZZA E LA CERCA SEGUENDO LE SUE TRACCE SINO AL FONDO DELLA SUA PERDIZIONE

“Che ve ne pare?”. Lasceresti oggi il guadagno sicuro di novantanove pecore per andare a cercare un’unica pecora dispersa, senza alcuna certezza di trovarla, senza sapere se sia viva o morta, o sbranata dai lupi e così inutilizzabile per lana e carne? Lascerei una parrocchia piena di attività, riunioni, catechismo, messe, cori, corsi biblici, quaresimali, per andare a cercare un fratello traviato, l’unico chissà, scappato, perduto, ostinato nei suoi peccati, cieco nei suoi inganni? Chi sarebbe disposto ad azzerare il contachilometri del cammino fallimentare nei confronti di una sola persona, dura, cocciuta, decisa a fare per conto suo, lasciando le certezze accumulate con novantanove pecore obbedienti, pronte a leggere, cantare, andare a consegnare avvisi, sempre impegnate e presenti in sacrestia come in chiesa? Forse una madre con il figlio drogato. Forse per recuperarlo. Ma per ritrovarlo così com’è e perdonarlo senza condizioni, mille volte, per finire con il vederselo morire tra le braccia? Forse, ma è il figlio. Ma per un nemico ostinato? “Che ve ne pare”, Gesù mira al nostro intimo, perché Gesù parla sempre al cuore: “che cosa appare nei nostri atteggiamenti quotidiani in parrocchia, nella missione, in famiglia, a scuola e al lavoro? La libertà da se stessi, dagli anni accumulati e dalle ragioni raccolte nella mente e nel cuore, per ripresentare a Dio, ogni giorno, dinanzi alle mille speranze frustrate, la propria vita, il proprio corpo, la propria mente e il proprio cuore come un foglio completamente bianco, nell’assoluta certezza che Lui saprà stupirti e compiere l’impossibile? Parole e gesti non mentono, sono parabole che rimandano a contenuti ben precisi: sei così abbandonato a Dio da credere che davvero per Lui mille anni sono come un giorno solo, e che ciò che non è accaduto in tanto tempo può compiersi in un istante? Forse no, e per questo, nonostante i tanti miracoli operati da Dio nella tua vita, ti senti ancora frustrato, e ti sfugge la gioia. Perché la gioia autentica, la gioia sovrabbondante, quel “rallegrarsi di più” del pastore della parabola, ci è data come una primizia nel “ritrovare chi era perduto”! La gioia della misericordia, che significa viscere che gestano i cristiani a una vita celeste! Essi, infatti, sono stati scelti, chiamati, perdonati, curati, formati ed eletti per vivere questo surplus di gioia del Pastore. Essa coincide con quella che vi è “nel Cielo”, come spiega il parallelo del vangelo di Luca: “Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. La nostra gioia che nessuno potrà più toglierci è proprio quella di essere stati ritrovati, la stessa dei discepoli la sera di Pasqua quando, sperduti come gregge senza Pastore, ne hanno “visto di nuovo” il volto. Una gioia straripante sgorgava dal loro intimo nel contemplare le ferite che Gesù si era procurato per cercarli: con il sangue colato da quelle ferite aveva scritto in Cielo il nome di ciascun uomo per l’eternità. Quella era la gioia di cui aveva parlato ai discepoli rientrati dalla missione, ammonendoli di non rallegrarsi del potere di cui avevano disposto, nemmeno nel vedere satana precipitare come folgore. Ora quella gioia stava per compiersi. La vista del Signore l’aveva innescata, ma doveva ancora diventare la stessa “più gioia” del Pastore. Quegli undici apostoli impauriti siamo io e te, sono immagine della Chiesa. Ma, in loro, Gesù ha ritrovato anche ogni altro uomo che ha perduto nei peccati l’immagine del Padre. Il Mistero Pasquale di Cristo, infatti, ha reso eredi legittimi di quella gioia tutti gli uomini di ogni generazione. Per questo il Signore risorto ha immediatamente colmato e rivestito di Spirito Santo la grande gioia degli apostoli, rendendola come la sua stessa gioia. Ha così trasformato quelle pecore ritrovate in pastori inviati esattamente “come il Padre ha inviato Lui”. A “lasciare sui monti le novantanove ritrovate”, ad affidarle cioè alla Scrittura di cui “i monti” sono immagine e ai sacramenti che scaturiscono dal monte Golgota, perché non si “smarriscano”. E ad uscire per cercare la pecora perduta. Quanti fratelli mancano all’appello del nostro cuore! Nelle parole di Gesù è svelato il mistero dell’amore soprannaturale che, prendendo dimora nel cristiano per mezzo dello Spirito Santo, fa di lui una scintilla celeste che scuote il mondo, per “splendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola della vita”. Per una imperscrutabile volontà di Dio alcuni sono stati chiamati alla Chiesa, ed eletti a far parte del Popolo santo che ha gli stessi sentimenti di Gesù. La Chiesa avvinta dallo Spirito Santo, che la Carità di Cristo “urge”, sospinge incessantemente” a cercare la pecora perduta annunciando il Vangelo a ogni creatura. Per questo i cristiani, come Gesù, sono sempre santamente inquieti, aspirando alla gioia “più grande”, più dello stesso sentirsi amati e perdonati.

Sì, è qui il cuore del vangelo di oggi che illumina anche il senso profondo dell’Avvento. Attendere il Signore, desiderare la sua venuta significa andargli incontro uscendo da se stessi per testimoniare e annunciare il Vangelo. Lui, infatti, è già alle porte della nostra vita incarnato in ogni “piccolo”, come il Bimbo deposto nella stalla di Betlemme. Non lo senti Lazzaro che geme alla tua porta? Brama di saziarsi dello stesso amore che ha arricchito la tua vita di ogni bene! E’ tuo padre, è tua figlia, tua moglie, quel collega, o quel vicino di casa che urla sempre, non ti saluta mai, schiavo di chissà quale peccato. Ascolta! Se stai male, se senti che ti manca qualcosa per essere felice, nonostante Dio ti abbia ricolmato di Grazie, è perché sei ancora un mezzo cristiano. Sei stato perdonato ma resisti ancora, ti stai di nuovo chiudendo per afferrare i piedi di Gesù, per possederlo e gustarti in pace il suo amore. Ma è impossibile! Così svanisce anche la Grazia! Noli me tangere, non mi trattenere dice Gesù alla Maddalena ritrovata e a ciascuno di noi. Alzati, ora, e “va’ dai miei fratelli e annuncia loro che salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Va’ a cercare la pecora perduta perché essa è una dei fratelli di Gesù; e annunciale che il suo nome è scritto in Cielo, che Il Padre delle novantanove rimaste nella comunità cristiana è anche Padre suo, che il Dio dei cristiani è anche Dio suo! Questo ha fatto San Paolo: “Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli” (Rm 9, 1-3). Non c’è gioia autentica se non è gestata nel cuore dal grande dolore e dalla sofferenza continua per i “fratelli” che non sono ancora ritrovati. E’ il cortocircuito del cuore di Paolo, completamente posseduto dallo zelo divino, che è misericordia, gelosia e santa ira contro il demonio. Lui sì che aveva i sentimenti di Gesù. Ritrovato mentre era lanciato ad incarcerare i suoi fratelli più “piccoli”, ha sperimentato il suo perdono che lo ha, immediatamente catapultato nella missione verso i più lontani. E, una volta illuminato, ecco crescere in lui il dolore per chi stava rifiutando Cristo, al punto di voler essere egli stesso anàtema. Questo termine, che letteralmente significa “una cosa appesa, esposta”, traduce l’ebraico herem, che indica le cose messe da parte, sia per la divinità, sia per la maledizione. Herem, infatti, può significare sia una città votata allo sterminio, che la primizia da offrire a Dio come sacrificio. Per questo, significa anche messo al bando, escluso dalla vita, posto a termine, ovvero “separato da Cristo”. Paolo amava la salvezza dei suoi fratelli più di se stesso. Come Gesù, che è divenuto anàtema per noi, “appeso” al legno della Croce per riscattare ogni pecora perduta. Ma chi di noi è così libero, e innocente, da rinunciare a tutto, anche a se stesso, rischiando la propria salvezza, offrendosi in riscatto per chi è lontano e perduto, gettandosi nell’impresa di cercare e salvare quel rapporto perduto, quell’amico diventato nemico, quel coniuge che ci ha lasciato vent’anni fa? Chi può rinunciare alla propria vita al punto di accettare che Dio sconvolga decenni di certezze, di conclusioni cementate dall’esperienza, di arguzie e discernimenti “forgiati sul campo”? Chi? Solo Gesù Cristo! Egli è l’unico che ha nel cuore cento pecore, sempre. Anche quando una scappa, si perde, lo rifiuta, lo bestemmia, spezza l’Alleanza, lo tradisce, e distrugge la propria vita e dilapida la primogenitura e le Grazie ad essa legate, per Lui il gregge è sempre di cento pecore, mai di novantanove. Gesù non cancella nessuno, non considera nessuno spacciato, sino alla fine. Per Lui è sua pecora anche la peggiore, la più ribelle; anche quella che lo umilia, e lo calunnia, e lo uccide… E’ parte della sua eredità consegnatagli dal Padre come la sua missione: cento ne ha ricevute, cento vuole portare all’ovile eterno del Cielo. Per questo ha lasciato che calpestassero il suo onore, la propria volontà, gli schemi messianici nei quali era stato educato, il suo stesso essere Figlio di Dio, sino a terminare su una croce come il peggiore dei bestemmiatori. Ogni progetto, ogni logica – e che logica! – tutto è saltato, e in Lui, Pastore buono gettato alla ricerca della pecora perduta si è svelato il pensiero di Dio. Il pensiero di Dio su di me. Si, quella pecora smarrita sono io. Per me il Signore ha percorso un cammino infinito, dal Cielo alla terra. E, sulla terra, sino a me, alla mia vita, oggi. Sono scappato, preso da un’irrefrenabile frenesia di cambiare foraggio, suvvia sempre lo stesso… E ho smarrito il cammino vagando dietro ad altri compagni. Ma mentre me ne andavo sui passi del peccato il Signore era già alla mia ricerca. Si, proprio mentre saliva gagliarda la violenza dal mio cuore e seminavo di morte il mio cammino, Lui era già sulle mie tracce, perché il fuoco di un amore soprannaturale lo attirava verso di me. E verso chiunque mi è vicino e si è fatto il più lontano, l’amico che mangiava con me e mi ha tradito, vendendomi per trenta stupide monete. E’ vero, questi sentimenti non ci appartengono, perché, contabili pii e saggi quali crediamo di essere, ci stringiamo alle novantanove certezze e dimentichiamo nell’inferno quella pecora che Dio ci ha dato come un tesoro unico e prezioso da custodire e amare. Se davvero abbiamo sperimentato la gioia di essere stati ritrovati dal Signore, e abbiamo ricevuto lo Spirito Santo, allora quell’unica pecora che ci è sfuggita, che non ha accolto il nostro amore, le nostre cure, parla oggi al nostro cuore: è il Signore stesso che, in lei, ci chiama alla luce della verità. Forse gli sforzi che abbiamo profuso hanno dimenticato chi quella pecora fosse realmente, e abbiamo tentato di rinchiuderla nei nostri criteri. O forse no, forse è stata davvero così perversa da rigettare il nostro amore, da rifiutarci e tradirci. Il fatto è che ora manca all’appello. E fa parte di noi, dell’eredità che Dio ci ha dato nel momento stesso in cui ci ha pensati e creati, e ci ha chiamato alla Chiesa. Non saremo noi stessi sino a che non l’avremo ritrovata, issata sulle spalle e ricondotta a Dio. Guardarsi e rimirarsi per i successi ottenuti, come per i fallimenti subiti, non è secondo il cuore di Dio. Lo zelo che arde di gelosia per la carne della propria carne dispersa e perduta non può non muovere la Chiesa e i cristiani, al di là di ogni progetto e piano pastorale o familiare, e sospingere tutti sui sentieri impervi dei bassifondi della storia. Siamo nella Chiesa per questo! Perché l’amore e la compassione di Cristo arda nei nostri cuori volgendoli verso “i piccoli”, spendendo ogni istante della vita “perché nessuno si perda”. E’ la “volontà del nostro Padre celeste”! Non ce n’è altra. Il lavoro, il matrimonio, il ministero presbiterale? Sono strumenti per compiere quest’unica volontà d’amore del Padre, che desidera il ritorno di Gesù nella nostra vita spesa perché il suo amore possa giungere a ogni pecora perduta. Camminiamo allora in questo Avvento, immagine di tutta la nostra esistenza, preparando con la nostra conversione la strada al Signore, affinché con Lui “riusciamo” a ritrovare ogni fratello disperso.

Don Antonello Iapicca
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JAPAN
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Dal Vangelo secondo Matteo 18, 12-14

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite.
Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli.

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