Commento al Vangelo del 26 marzo 2017 – don Walter Magni

Cari amici e amiche,

un episodio come quello che abbiamo ascoltato (Domenica del cieco nato, IV di Quaresima, 26 marzo 2017) corre tutto sul filo dello sguardo. Di uno sguardo che vede, che non vede o che non vuole vedere. E il filo rosso, la tensione che attraverso questo straordinario episodio, il punto focale lo si percepisce alla fine del racconto, quando quell’uomo ch’era stato cieco riesce finalmente a vedere Gesù, credendo in Lui: “ed egli disse: ‘Io credo, Signore!’. E gli si prostrò innanzi” (9,38).

Lo sguardo di Dio

“Passando, il Signore Gesù vide un uomo cieco dalla nascita”. Quello di Gesù è uno sguardo che raggiunge il cuore. Che si intreccia con i tuoi desideri e i tuoi bisogni più profondi. Uno sguardo che consola, che salva. Libero da ogni pregiudizio, diremmo noi: semplicemente positivo. Gesù vede con i Suoi occhi un uomo che non vede, che non ha mai visto la luce e colori, un tramonto o il volto di un bambino. E mentre lo guarda Lo attraversa un fremito, un bisogno del cuore. L’istinto divino che anche quell’uomo possa vedere; che pure lui possa amare guardando, accorgendosi degli altri. Riempiendosi gli occhi di quella bellezza che lo renda capace a sua volta di tenerezza e consolazione. Prima di giudicare, prima di tante nostre domande, Gesù mette in atto la grammatica della compassione. Guardando l’altro così com’è. Dando all’altro l’unico credito del quale è capace: essere se stesso. Nella sua identità primordiale. Qui, infatti, scatta un primo contrasto con i Suoi, che davanti a quell’uomo vengono presi dalla smania di farne un caso curioso di teologia morale: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. C’è una naturalità, una creaturalità dell’altro che non ammette sovraccarichi. Che va accolta senza se e senza ma. Perché l’altro appartiene prima allo sguardo di Dio che al nostro, inficiato dalle nostre infinite considerazioni. Lo sguardo di Gesù, che si posa su quest’uomo cieco, ci rimanda allo sguardo primordiale di Dio creatore, quando voltandosi al termine del sesto giorno, disse dell’uomo che “era cosa molto buona” (Gn. 1,31).

Scegliere di vedere

Non basta però tornare a vedere. La vita ci insegna che si impara a vedere. Scegliendo di vedere, decidendo di vedere. Accorgersi o non accorgersi, stare ai fatti o cercare di negarli. Camuffando i fatti col pregiudizio o lasciandosi cullare dal gioco facile dell’ideologia. Gesù dà inizio al miracolo nella vita di quest’uomo che era cieco, ma il miracolo va compiuto inoltrandosi nell’esistenza, con tutte le sue fatiche e le sue resistenze. È vivendo che si prende posizione, decidendo di vedere o non vedere, scegliendo da che parte stare. I diversi gruppi che, stando all’episodio evangelico, si mettono a discutere della vista riacquistata miracolosamente da quest’uomo, rappresentano alcune tonalità tipiche della vista umana. Angolature diverse, punti di vista diremmo noi, tutti incentrati su un solo fatto evidente: quest’uomo era cieco e adesso ci vede. Puoi fare l’attendista, come i suoi vicini che giocano a dire che è lui o non è lui; o rivestirti della stessa paura dei suoi genitori che non si compromettono; oppure negare l’evidenza, come i farisei che fanno tutti i loro accertamenti ma guidati da un solo grande pregiudizio: quello di non andare alla radice, alla fonte del fatto di quest’uomo che ora vede: quell’uomo, che nessuno sa da dove viene, che si chiama Gesù. Commettendo, loro, il peccato di chi non vuole vedere. Come dirà più avanti Gesù, commentando l’atteggiamento dei farisei: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41). Davvero non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere.

Nello sguardo di Gesù

C’era una donna che faceva l’elemosina a chiunque gliela chiedesse. Sapeva d’essere spesso imbrogliata, ma se le chiedevano, lei dava sempre qualcosa. Come riconoscesse che prima del suo dare c’era una dignità da riconoscere. Il mondo non si salva per i nostri discernimenti e le nostre disquisizioni, ma per quella gratuità – che il mondo chiama volentieri insensatezza – che lo sguardo sanante di Gesù mette in atto senza una ragione umana plausibile. Perché “Dio fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni” (Mt 5,45) e i suoi pensieri non sono i nostri. Decisiva diventa pertanto la risposta che Gesù dà ai Suoi discepoli, che avviano la schiera dei ben pensanti che hanno sempre qualche espediente di saggezza da anteporre allo sguardo sanante di Dio: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Sono parole illuminanti, che scaldano il cuore. Che avviano una direzione evangelica, una prospettiva, una mèta precisa alla nostra libertà. O si entra nello sguardo misericordioso di Dio – Misericordiae vultus, dice papa Francesco nella bolla di indizione dell’anno giubilare appena passato – o il cancro del peccato continuerà a deformare il mondo. Una convinzione non ci deve mai più abbandonare: l’essenziale della vita degli uomini, spesso invisibile ai nostri occhi, Dio non smetterà mai di vederlo e di indicarcelo ancora. Perché “verità fondamentale del cristianesimo è questa: ciò che salva è lo sguardo” (S. Weil). Continuando a rivelare all’altro la sua inesauribile bellezza. Così infatti è il nostro Dio, così semplicemente fa Dio.

don Walter Magni

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