Gianfranco Ravasi – Una madre eroica

441

«Non temere questo carnefice, ma accetta la morte, perché io ti possa riavere insieme ai tuoi fratelli nel giorno della misericordia». È una madre a esortare in questo modo uno dei suoi sette figli che stanno per essere votati al martirio. Suggestiva è la definizione del giudizio finale non come il dies irae, idea presente nella tradizione profetica e apocalittica, ma come “il giorno della misericordia” del Signore. La nostra rubrica, dedicata al nesso tra famiglia e misericordia, ci spinge a evocare questa madre di alto profilo eroico e spirituale, delineata nel capitolo 7 del Secondo Libro dei Maccabei.

È, questo, un libro deuterocanonico (è scritto in greco ed è solo nel Canone biblico cattolico), frutto del sunto di un’opera più ampia e andata perduta di un certo Giasone di Cirene. Lo scopo del testo, che ha tonalità e colori accesi e appassionati, era esaltare la rivoluzione dei fratelli Maccabei, che si ribellarono al potere siro-ellenistico che tentava di imporre anche a Israele fede, cultura, usi e costumi di netta impostazione pagana (II sec. a.C.). Il libro – che è autonomo e non è la continuazione del Primo Libro dei Maccabei – celebra l’eroismo dei combattenti ebrei attraverso alcuni racconti esemplari.

Quella della madre di sette figli è forse la più “patetica” e commovente di queste narrazioni: una pagina tutta in crescendo, da leggere integralmente. Ella, con coraggio sovrumano, spinge i figli a non esitare nell’affrontare la morte, consapevole che essa non sarà un abisso di nulla e di dissoluzione ma una soglia aperta per entrare in una nuova vita, nell’abbraccio appunto della misericordia divina. Per questo il secondo dei sette figli prima di esalare l’ultimo respiro, grida al carnece: «Tu, scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re del mondo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna» (7, 9).

La stessa fierezza e fiducia, stimolate dalla madre, sono testimoniate dal quarto dei figli che puntando l’indice contro il boia, esclama: «È bello morire a causa degli uomini, per attendere da Dio l’adempimento delle speranze di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te la risurrezione non sarà per la vita» (7,14). Da queste parole appare evidente che il giudaismo del periodo ellenistico credeva sia nella risurrezione come destino ultimo della creatura umana, sia nel giudizio divino sul bene e sul male, ma soprattutto nella salvezza offerta ai giusti dall’amore misericordioso del Signore. Si era anche convinti che l’essere intero deriva dal Creatore che «l’ha fatto non da cose preesistenti» (7,28). È la dottrina della “creazione dal nulla” che è alla base della fiducia nella risurrezione, opera dello stesso Creatore.

Il racconto mette in scena in modo diretto anche il re Antioco IV che regnò dal 175 al 164 a.C. sulla Siria e sulla Palestina cercando di imporre in modo rigido lo stile di vita greco e provocando la rivoluzione dei Maccabei. L’autore sacro lo raffigura come un personaggio sadico che «si sfoga sul più piccolo dei fratelli più duramente che sugli altri, sentendosi invelenito dallo scherno» (7,39) che quel ragazzino gli opponeva. «Ultima dopo i figli, anche la madre incontrò la morte» (7,41). Una bellissima testimonianza di un’intera famiglia fiduciosa nel Dio che non abbandona i suoi fedeli anche nel tempo oscuro della prova.